Stranieri Ovunque: la Biennale di Venezia
Credits: La Biennale via IG

Stranieri ovunque

di Alberto Fiz

La mostra alla Biennale di Venezia

Decolonizzazione, discriminazione di genere e multiculturalismo sono le tematiche dei 332 artisti scelti da Adriano Pedrosa. Alla ricerca di nuovi equilibri tra Nord e Sud del mondo.

Di fronte a Stranieri ovunque/Foreigners everywhere, la mostra principale della 60a Esposizione Internazionale d’Arte, il rischio è quello di essere sopraffatti dal nostro senso di colpa. Senza dubbio Adriano Pedrosa (Rio de Janeiro, 1965), primo curatore brasiliano, ha dimostrato di essere animato da nobili principi. Le tematiche che vengono affrontate – decolonizzazione, discriminazioni di genere, diversità – appaiono quanto mai condivisibili. Così come l’allargamento dei confini e il desiderio di trovare un nuovo equilibrio tra il Nord e il Sud del mondo. In mostra tuttavia le buone intenzioni si scontra- no con una serie di problematiche estetiche non risolte o che, in nome del multiculturalismo, conducono a strade senza uscita “imbarcando” molti artisti che hanno il solo pregio di appartenere a realtà dimenticate senza alcun apporto innovativo od originale. Anzi, la componente etnica e antropologica rischia di andare a detrimento dei valori che si vogliono sostenere (è accaduto almeno in parte anche nella Biennale del 2022 e ha coinvolto l’ultima edizione di Documenta a Kassel). L’inclusività del resto non appare sufficiente per giustificare talune presenze che si limitano a riproporre cliché superati o privi di ogni riferimento al linguaggio contemporaneo e la scelta di puntare su artisti outsider, queer, folk o indigeni assume spesso un aspetto prettamente documentaristico e sociologico. Nonostante ciò, l’esposizione principale della Biennale, ospitata come di consueto nel Padiglione Centrale ai Giardini e all’Arsenale con il numero record di 332 artisti, richiede un’analisi complessiva e a Pedrosa va riconosciuto il merito di non essersi piegato a logiche commerciali a favore delle gallerie potenti, ma di aver compiuto un’indagine indipendente dove i soliti noti sono quasi del tutto assenti: gran parte degli artisti selezionati, sconosciuti ai più, sono presenti in Biennale per la prima volta. Un altro aspetto che caratterizza questa edizione è quello di privilegiare uno sguardo retrospettivo con ben 189 artisti nel nucleo storico, in gran parte scomparsi, cui se ne aggiungono 20 non più in vita nel nucleo contemporaneo: questo contrasta con lo scopo principale della kermesse lagunare, ovvero valorizzare le nuove tendenze (era già avvenuto nel 2022 con le capsule create da Cecilia Alemani per esporre artisti d’inizio Novecento, in particolare donne, che si erano distinte, senza i giusti riconoscimenti, nell’ambito del Dadaismo e del Surrealismo). Osservando la Biennale di quest’anno viene in mente il quesito posto da Henri Focillon:

“Il passato non serve che a conoscere l’attualità. Ma l’attualità mi sfugge. Cos’è in fondo l’attualità?”.

La manifestazione sembra andare incontro a un tempo sospeso costringendoci a guardare indietro alla ricerca disperata e pretestuosa di un’arte primigenia, ingenua e germinale che si scontra con una realtà di ben maggiore complessità.

Stranieri Ovunque: la Biennale di Venezia
La Biennale via IG
Stranieri Ovunque: la Biennale di Venezia
Visionario

L’intenzione di coinvolgere lo spettatore in un viaggio straniante e visionario appare evidente sin dal grande murale che copre interamente la facciata del Padiglione Centrale ai Giardini. A realizzarlo con forme e cromatismi dichiaratamente naïf è il collettivo brasiliano Mahku che descrive in chiave mitologica il passaggio dal continente asiatico a quello americano dove il tradimento dell’uomo nei confronti degli animali e della natura ha come conseguenza la frammentazione dei popoli. Ma sono molti i lavori dove si fatica a superare la dimensione artigianale o puramente descrittiva, come avviene per i paesaggi lenticolari dell’australiana Marlene Gilson, per le edulcorate figure femminili ricoperte da motivi maya della guatemalteca Paula Nicho o per le infantili descrizioni della schiavitù proposte dall’afro-messicana autodidatta Aydeé Rodríguez López. Più raffinata La Chola Poblete cui la giuria ha assegnato una menzione speciale. L’artista argentina ha immaginato un universo onirico con esseri ibridi, narrazioni leggendarie e vergini con le trecce, interpretabili come suoi autoritratti. Esce dalle convenzioni accademiche anche il brasiliano Dalton Paula con la serie di ritratti dedicati a personaggi di colore impegnati nei movimenti di resistenza antischiavista, ricoperti da un dripping bianco che rende le fisionomie sfocate, come se non fossero state ancora completamente riconosciute. Assai più noto Salman Toor, pakistano trasferito a New York, che dà vita a scene di violenza urbana filtrate da un verde saturo in rappresentazioni grottesche, dove appare evidente la lezione classica con personaggi ispirati da Antoon van Dyck e Caravaggio.

Giulia Andreani alla Biennale di Venezia
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Giulia Andreani alla Biennale di Venezia
Confronti

Ha come punto di riferimento l’Espressionismo tedesco di Ernst Ludwig Kirchner l’americano Louis Fratino che descrive la vita quotidiana queer in opere poste in dialogo con quelle di Filippo de Pisis. La relazione però risulta stonata in quanto mancano riferimenti linguistici appropriati. Come spesso accade in mostra, si compiono letture forzate e il rapporto tra Fratino e il maestro ferrarese è motivato dalla loro comune omosessualità, come se gli orientamenti avvicinassero i loro stili. Appare filologicamente più appropriato l’accostamento tra la trentanovenne Giulia Andreani, veneziana che vive a Parigi (tra i 20 artisti selezionati per il Premio Cairo 2016), e l’inglese Madge Gill, scomparsa nel 1961 all’età di settantanove anni, una scoperta di straordinario interesse. Sebbene le due artiste appartengano a epoche differenti, Andreani, attraverso i suoi grandi acquerelli, rivela le tracce frammentarie della memoria sepolta negli archivi mettendo in risalto la lotta delle donne per l’emancipazione. Al centro di una delle sue opere compare proprio il ritratto di Gill. Il lavoro di quest’ultima prende spunto da un’esperienza medianica ed è animato da enigmatici volti femminili (li si può leggere come autoritratti emozionali), scale vertiginose e piani a scacchiera che sembrano susseguirsi all’infinito. La sua Crucifixion of the soul del 1936 si snoda per dieci metri su tessuto di calicò conducendo a uno dei motivi dominanti dell’intera esposizione, ovvero l’uso del materiale tessile. Come sottolinea Pedrosa, tale tecnica rivela «un interesse per l’artigianato, la tradizione e il fatto a mano, così come per aspetti che, nel più ampio campo delle belle arti, sono stati a volte considerati estranei». Anche in questo ambito lo spettatore rischia di confondere scendiletti della nonna privi di poetica con opere di autentica ispirazione.

 

Nil Yalter alla Biennale di Milano
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Nil Yalter alla Biennale di Milano

A questa seconda categoria appartiene l’indagine del britannico-nigeriano Yinka Shonibare, tra i pochi nomi celebri in mostra, che ha fatto del tessuto un elemento identitario al di fuori dei luoghi comuni. Lo dimostra il suo paradossale astronauta-migrante ricoperto da un abito finto africano che si porta sulle spalle un sacco con vari oggetti, tra cui una padella e un acchiappafarfalle, per affrontare le crisi ecologiche e umanitarie. Più dichiaratamente simbolico l’intervento di Dana Awartani, l’artista palestinese-saudita che considera la seta come un’epidermide su cui intervenire prima con gli strappi e poi con i rammendi, suggerendo vere e proprie cicatrici fisiche ed emotive. Anche la messicana Teresa Margolles denuncia la violenza e crea sindoni di forte drammaticità posizionando sul tessuto corpi insanguinati di giovani uccisi durante le migrazioni forzate. È poi una tenda di feltro e pelle di pecora ad accogliere i visitatori all’ingresso del Padiglione Centrale: l’opera è inserita al centro di un’installazione ambientale tra le più riuscite della Biennale dal titolo Exile is a hard job (L’esilio è un duro lavoro), ispirata alle parole del poeta turco Nâzim Hikmet. A realizzare l’intero progetto è l’artista egiziana ma francese d’adozione Nil Yalter cui è stato assegnato, insieme ad Anna Maria Maiolino, il Leone d’Oro alla carriera. Rimanda alla trama del tessuto anche l’installazione all’Arsenale del collettivo maori Mataaho che ha vinto il Leone d’Oro per la miglior partecipazione alla Biennale. Il premio è stato assegnato a una gigantesca struttura intrecciata di fasce in poliestere che sembra evocare un rifugio, così come un cielo stellato riflesso sul pavimento attraverso imprevedibili sovrapposizioni di luci e ombre. Un altro premio è stato conferito a uno dei pochi under quaranta presenti in Laguna, la trentanovenne inglese Karimah Ashadu, che si è assicurata il Leone d’Argento per la miglior giovane promessa con una propria versione video di Gioventù bruciata, il mitico film con James Dean. L’artista inglese cresciuta in Nigeria ha messo in scena i giovani guidatori dei mototaxi illegali che imperversano rumorosamente nelle strade di Lagos, delineando ritratti in bilico tra vulnerabilità e mascolinità.

Il collettivo maori Mataaho alla Biennale di Venezia
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Il collettivo maori Mataaho alla Biennale di Venezia
Antropologia

La componente antropologica che percorre Stranieri ovunque/Foreigners everywhere (il titolo è tratto dalle sculture al neon con la medesima dicitura tradotta in 53 lingue esposte alle Gaggiandre e realizzate dal collettivo Claire Fontaine, nato a Parigi con sede a Palermo), trova talvolta una compensazione in opere ironiche e dissacranti dove la retorica viene spazzata via. Accade così per Prêt-à-Patria della messicana Bárbara Sánchez-Kane, che ridicolizza i simboli della cultura militare e del machismo con una scultura verticale, dove i soldati indossano lingerie di pizzo e utilizzano l’asta della bandiera in maniera assai poco lecita. Se l’americana Lauren Halsey disarciona i fregi della storia e in fondo all’Arsenale colloca una serie di colonne ricontestualizzate in chiave pop con le sembianze degli abitanti del suo quartiere di Los Angeles, il camerunense Victor Fotso Nyie (vive a Faenza) nelle sue ceramiche smaltate e dorate mette insieme le forme della tradizione plastica africana con soggetti familiari quali la madre o la sorella. Ne nascono ibridazioni stranianti, non prive di curiosità, al limite del kitsch. Dello stesso tenore sono anche i dissacranti mosaici omoerotici del libanese Omar Mismar e il carretto in legno del neozelandese Brett Graham che ammucchia sagome di anguille in un’opera che sarebbe piaciuta al Nouveau Réalisme. Nei Giardini della Biennale invece spunta inaspettato il Pabellon criollo della venezuelana Sol Calero, un luogo d’incontro tra architetture caraibiche e caleidoscopiche forme colorate che ridicolizzano la moda del turismo esotico. Amara è all’opposto l’ironia espressa dall’americana Puppies Puppies (il suo vero nome è Jade Guanaro Kuriki-Olivo) che ha realizzato Electric dress, installazione multimediale con al centro un manichino ammiccante, drappeggiato con un abito a Led. Sembra una scena da discoteca, ma in realtà l’opera rende omaggio alle persone uccise durante una sparatoria del 2016 in un nightclub queer a Orlando, in Florida: i Led tremolanti seguono il battito del cuore e i colori alternati riprendono quelli della bandiera arcobaleno LGBTQ+.

Nucleo storico

Accanto al contemporaneo, il nucleo storico, sebbene ridondante, appare fondamentale per comprendere lo spirito della Biennale 2024. La sezione più ampia è quella dedicata al Ritratto con 112 opere dove insieme a figure molto note quali i messicani Frida Kahlo (curiosamente non era mai stata proposta in Biennale) e Diego Rivera, oltre al cubano Wifredo Lam, sono tanti gli outsider tra cui l’ecuadoriano Oswaldo Guayasamín con l’immagine di un uomo piangente reso efficace dalla screpolatura del colore sotto i suoi occhi. Provengono in particolare dall’America Latina e dai Paesi africani i 37 artisti che animano la sala dedicata alle Astrazioni. Qui vengono proposti la libanese Etel Adnan, la colombiana Olga de Amaral, il marocchino Mohammed Chebaa, la sudafricana Esther Mahlangu, oltre alla palestinese Samia Halaby, cui è stata assegnata la menzione speciale per il dipinto Black is beautiful del 1969 che esplora i limiti della visione. Il nucleo storico prevede anche un grande spazio dal titolo Italians everywhere con la diaspora degli artisti italiani nel mondo. Sui modernissimi espositori a cavalletto in vetro e cemento di Lina Bo Bardi risalenti al 1968, vengono allestite le opere di 40 artisti. Malgrado molte scelte rappresentino ricordi semplicemente agiografici, non mancano figure rappresentative come Gianni Bertini, Costantino Nivola, Anna Maria Maiolino, Simone Forti, Gino Severini, Aligi Sassu, Mario Tozzi e l’italiano naturalizzato americano Joseph Stella, che contribuì alla divulgazione del Futurismo negli Stati Uniti. Ma la presenza più significativa dell’intera sezione è quella di Domenico Gnoli con Sous la chaussure, il dipinto realizzato nel 1967: è sufficiente l’immagine ingrandita di una scarpa nera lucida che si solleva dal suolo per creare un senso di mistero e d’inquietudine azzerando ogni certezza. Una pedata a ogni forma di conformismo, cosa che la Biennale 2024 non è riuscita a dare, nonostante fosse sostenuta da tematiche dirompenti.

 

Questo approfondimento è tratto dal n. 609 di Arte. La rivista di arte, cultura e informazione è acquistabile in edicola o sul sito di Cairo Editore.

cover arte giugno 2024
Cairo Editore
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