Maurizio Cattela artista Biennale venezia 2024
Credits: La Lettura via Instagram

Gli artisti e i padiglioni della 60° Biennale

di Licia Spagnesi

Quali vedere e cosa aspettarsi da questa edizione

Immigrati, esiliati, diasporici, outsider. Ecco gli artisti più promettenti degli 88 padiglioni della 60° edizione della Biennale di Venzia tra Giardini, Arsenale e città.

L’assenza anche quest’anno della Russia, la levata di scudi contro la partecipazione di Israele, la petizione per escludere dalla rassegna la Repubblica islamica dell’Iran: la situazione internazionale infiamma il dibattito alla 60a Biennale di Venezia, ma non riesce a offuscare un’edizione che, in programma dal 20 aprile al 24 novembre nelle sedi ai Giardini, all’Arsenale e in città, si annuncia ricca di contenuti significativi e di artisti capaci di focalizzare lo sguardo sul nostro presente.

I nuovi Padiglioni alla Biennale di Venezia

Tra le 88 Partecipazioni nazionali, quattro le new entry: Benin, Etiopia, Timor Est e Tanzania.
Torna la Santa Sede:
alla sua terza partecipazione (le precedenti nel 2013 e nel 2015), presenta nella Casa di reclusione femminile alla Giudecca un progetto curato da Chiara Parisi (direttrice del Centre Pompidou Metz) e Bruno Racine (direttore di Palazzo Grassi e Punta della Dogana). Intitolato Con i miei occhi, è dedicato al tema dei diritti umani e alla figura degli ultimi, gli abitanti di mondi marginalizzati cari a Papa Francesco, che ha in programma di visitare la mostra il 28 aprile (prima volta della visita di un pontefice alla Biennale). Gli artisti invitati sono Maurizio Cattelan, Bintou Dembélé, Simone Fattal, il collettivo Claire Fontaine (al cui lavoro Stranieri ovunque – Foreigners everywhere è tra l’altro ispirato il titolo della Mostra internazionale del curatore Adriano Pedrosa al Padiglione Centrale), Sonia Gomes, Corita Kent, Marco Perego & Zoe Saldana, Claire Tabouret, con la partecipazione straordinaria del critico Hans Ulrich Obrist.

La tematica degli stranieri alla Biennale

Molti i padiglioni che si ricollegano alla più ampia tematica degli Stranieri ovunque. Come quello dell’antropologa e artista Kapwani Kiwanga (Hamilton, Ontario, 1978), prima donna di colore a rappresentare il Canada. Vincitrice del Premio Marcel Duchamp nel 2020 con il progetto Flowers of Africa, si serve di scultura, video e installazioni per portare alla luce storie di emarginazione dimenticate o cancellate, evocando le barriere tra gruppi sociali e la discriminazione con elementi semplici come il colore. Il concetto di soglia come confine spaziale e temporale è al centro della mostra a più voci per la Germania, intitolata Thresholds. Nel Padiglione ai Giardini, l’artista israeliana Yael Bartana (Kfar Yehezkel,1970) immagina il futuro come utopica (o distopica) fuga da un presente catastrofico, mentre il regista teatrale Ersan Mondtag (Berlino, 1987) presenta una narrazione frammentaria del passato; il progetto si estende all’Isola della Certosa, che ospita un’installazione sonora di Michael Akstaller, Nicole L’Huillier, Robert Lippok e Jan St. Werner. Di confini – fisici, sociali, psicologici – parla anche la scultrice e pittrice Vlatka Horvat (Cakovec, 1974), che nel Padiglione della Croazia presenta un lavoro ispirato alla pratica di chi, vivendo lontano dal proprio Paese, affida ad amici o parenti oggetti, pacchi e denaro da consegnare anche con mezzi improvvisati, come sottolinea il titolo, By the means at hand.

Le tecniche artistiche particolari alla Biennale di Venezia

Come ha anticipato Pedrosa nell’introduzione a Stranieri ovunque – Foreigners everywhere, in questa Biennale «si parlerà di artisti che sono essi stessi stranieri, immigrati, espatriati, diasporici, émigrés, esiliati e rifugiati». Ecco allora nel Padiglione di San Marino lo scultore e pittore americano Eddie Martinez (Groton, 1977) con il suo progetto autobiografico intitolato Nomader. O, ancora, John Akomfrah (Accra, 1957), regista e sceneggiatore chiamato a rappresentare la Gran Bretagna: di origini ghanesi, fondatore del Black audio film collective, nominato Comandante dell’Ordine dell’Impero Britannico nel 2017 e nel 2023 cavaliere per il suo contributo alle arti e al cinema, nelle sue videoinstallazioni multicanale affronta temi come identità razziale, postcolonialismo e memoria. Il suo lavoro è stato presentato di recente allo Hirshhorn museum di Washington e alla Tate Britain di Londra. O, ancora, lo scultore franco-caraibico Julien Creuzet (1986) che nel suo allestimento per il padiglione della Francia fonde musica, scultura, poesia e cinema per evocare il passato travagliato della Martinica, tra colonizzazione e creolizzazione. C’è grande attesa anche per il Padiglione della Nigeria, il cui tema, “immaginare una nazione”, è interpretato da nove artisti della diaspora nigeriana, tra cui i più noti sono lo scultore britannico Yinka Shonibare (1962), celebre per il suo linguaggio artistico fondato sull’ibridazione culturale, la pittrice Toyin Ojih Odutola (1985) e Precious Okoyomon (1993), presente nella Biennale del 2022 Il latte dei sogni con uno spettacolare giardino tropicale sorvegliato da inquietanti spaventapasseri. Love in a glass of water è invece il titolo della mostra per il Padiglione dell’Albania di Iva Lulashi (Tirana 1988): oggi attiva a Milano, la pittrice, che ha partecipato al Premio Cairo nel 2018, ispirandosi agli scritti della filosofa femminista russa Aleksandra Kollontai (1872-1952) riflette sul passato del suo Paese d’origine partendo da tabù come eros e libertà sessuale.

Artisti indigeni alla Biennale di Venezia

Per la prima volta, per il Padiglione degli Stati Uniti è stato scelto un artista nativo americano. Di origini Cherokee e Choctaw, Jeffrey Gibson (Colorado Springs, 1972) è impegnato in una ricerca personale che utilizza non solo pittura, ma anche artigianato e tessitura, per parlare di identità, appartenenza, “queer theory”. I suoi lavori astratti e pop, tutti perline, frange e colori fluo, sono stati di recente esposti al Site Santa Fe nel New Mexico e al Portland art museum. Di identità, alterità e alienazione parlano anche Archie Moore (1970, Toowoomba), artista aborigeno che rappresenta l’Australia, ed Eva Kotáktová (1982, Praga) che nel Padiglione della Repubblica Ceca ripercorre la storia di una giraffa catturata in Kenya nel 1954 e trasportata nello zoo di Praga (l’artista ha esposto nel 2018 al Pirelli HangarBicocca, uno de più interessanti musei da vedere a Milano).

I Padiglioni più particolari alla 60° Biennale di Venezia: Giappone, Corea e Svizzera

Infine, tre padiglioni affrontano tematiche di forte attualità in maniera poetica e immaginifica. Il Giappone di Yuko Mohri (nata a Kanagawa nel 1980, la vedremo nel 2025 in una personale al Pirelli HangarBicocca) con installazioni cinetiche site specific parla di ecologia e sostenibilità ambientale partendo da una riflessione sugli effetti positivi delle crisi: «Mi interessa come una crisi possa stimolare la creatività delle persone», ha dichiarato. Koo Jeong-A (Seoul, 1967), al Padiglione della Corea, evoca “ricordi nazionali” attraverso odori, note musicali e temperature. Il padiglione della Svizzera ospita il travolgente, imprevedibile Guerreiro do Divino Amor che, nato a Ginevra nel 1983 e attivo a Rio de Janeiro, presenta un progetto cartografico-allegorico (settimo capitolo di Superfictional world atlas) curato da Andrea Bellini: propaganda politica e identità nazionale sono i temi al centro di ironiche videoinstallazioni neobarocche con colonne, fontane e personaggi in bizzarri costumi.

Da non perdere il Padiglione Italia di Luca Cerizza; qui l'introduzione generica alla Biennale di Venezia 2024.

Questo approfondimento è tratto dal n. 608 di Arte. La rivista di arte, cultura e informazione è acquistabile in edicola o sul sito di Cairo Editore.

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