Massimo Bartolini alla Biennale di Venezia
L'opera simbolo del Padiglione Italia
Il progetto immersivo fondato sull’uso performativo del suono è un invito all’attenzione e all’apertura verso l’altro.
Si intitola Due qui/To hear il progetto di Massimo Bartolini (Cecina, 1962), di cui è commissario Angelo Piero Cappello e curatore Luca Cerizza, e che rappresenta il Padiglione Italia alla 60° Biennale di Venezia. Il titolo gioca sull’assonanza tra “Two here”(due qui) e il verbo “To hear” (ascoltare), legata a un apparente errore di traduzione che in realtà suggerisce un sottile slittamento semantico: dalla dimensione sensoriale dell’ascolto a quella più intima dell’attenzione, dell’apertura verso l’altro.Tra gli artisti più stimati della sua generazione, Bartolini ha sviluppato, nel corso di una carriera più che trentennale, una propria, inconfondibile cifra stilistica, i cui elementi distintivi tornano tutti amplificati in questo nuovo lavoro: il rapporto osmotico con la dimensione spaziale, l’utilizzo performativo del suono, la dimensione collaborativa, la tensione tra opposti apparentemente inconciliabili. Due qui/To hear è insomma un complesso dispositivo intermediale, idealmente unitario ma diviso in tre parti, concepito per essere esperito indifferentemente nei due sensi di percorrenza, suggerendo una circolarità in cui i due ambienti interni possono sembrare di primo acchito antitetici ma sono in realtà complementari: l’uno dall’impianto minimale, l’altro barocco. Il pieno e il vuoto, collegati dall’elemento sonoro ma anche dall’ascolto, cui il calembour del titolo fa riferimento.
Nel primo ambiente delle Tese si accampa Pensive Bodhisattva on a flat, 2024, un’installazione composta da una piccola scultura, un “illuminato” (Bodhisattva) raffigurato in ossequio ai canoni dell’iconografia buddista, installato su una struttura stretta e vuota, trasformata dall’azione di un motore in una sorta di lunga canna di organo che fende lo spazio orizzontalmente. Le due pareti che lo delimitano sono dipinte, rispettivamente, in viola e verde, due colori che, secondo l’attribuzione cromatica alle tonalità musicali di Alexander Scriabin (1911), corrispondono alla cromia del La e del La bemolle. La bemolle è la tonalità di questo lavoro, mentre il La si riferisce alla tonalità dell’organo che Bartolini ha usato in Hagoromo, la sua robusta monografica recentemente presentata al Centro per l’arte contemporanea Luigi Pecci di Prato (2022-23), anche questa a cura di Luca Cerizza (con Elena Magini) e che costituisce l’imprescindibile ante quem del Padiglione Italia.
Due qui, 2024, l’installazione che abita lo spazio monumentale dell’altra Tesa, rilancia a una scala inedita un modulo compositivo ricorrente nel vocabolario plastico di Bartolini, il cui referente più prossimo è la grande architettura dal sapore industriale di tubi Innocenti presentata al Pecci di Prato, qui ingigantita fino a diventare lo scheletro di una monumentale cattedrale, i cui elementi vibrano come le corde di un organo. Questa struttura, percorribile e labirintica, è concepita come un immaginario giardino barocco all’italiana, il cui fulcro, spaziale ed acustico, è costituito da Conveyance, 2024, una scultura circolare dal sapore minimalista che funge anche da seduta intorno alla quale possono incontrarsi i visitatori, animata da un’onda conica simile a quella che genera uno “tsunami”. Una sorta di loop meditativo che sale e scende di continuo. È da questo punto specifico che si percepisce al meglio la composizione che anima questo secondo lavoro, appositamente scritta da Caterina Barbieri (1990, Italia) e Kali Malone (1994, Stati Uniti), tra le musiciste più riconosciute nell’ambito della musica sperimentale. Il loro componimento – Mute vette (A reflection that shines from one mind upon another) – è inciso su due rulli a motore simili a grandi carillon, che lo riproducono in loop e lo propagano nello spazio.
Completa l’esperienza A veces ya no uedo moverme, 2024, un coro per tre voci, campane e vibrafono composto dal musicista inglese Gavin Bryars (1943, Gran Bretagna), già collaboratore dell’artista nella sua monografica al Pecci, accompagnato in questa occasione dal figlio Yuri Bryars (1999, Canada). Insieme, hanno concepito una composizione ispirata a un testo del poeta argentino Roberto Juarroz (1925-1995), trasmesso da gruppi di tre megafoni sospesi ad altrettanti alberi nello spazio del Giardino delle Vergini, che suggeriscono possibili relazioni tra uomo e ambiente.
Il progetto di Massimo Bartolini è un’opera che ci ricorda come oggi l’arte possa presentarci un’esperienza immersiva, più simile a una modalità legata all’ascolto, come direbbe Régis Debray, che alla contemplazione. È un lavoro emblematico del raffinato modus operandi di Bartolini, che riesce a dialogare bene con gli spazi, decisamente non facili ma suggestivi, delle Tese delle Vergini. Eppure, numerose polemiche animano da giorni le cronache, prima da parte di una politica avventata, successivamente di alcuni media che hanno sollevato questioni legate sia alla somiglianza tra il Padiglione Italia ed il lavoro precedentemente presentato da Bartolini a Prato, sia alla gestione dei fondi pubblici per la produzione del progetto. Questioni, a onor del vero, in buonaparte sterili e faziose che rischiano di minare la percezione pubblica del già fragile ecosistema dell’arte contemporanea italiano, tanto a livello nazionale che internazionale.
Questo approfondimento è tratto dal n. 609 di Arte. La rivista di arte, cultura e informazione è acquistabile in edicola o sul sito di Cairo Editore.