Padiglione Italia alla Biennale di Venezia 2024
Intervista al responsabile Luca Cerizza
Il neo responsabile del Padiglione Italia anticipa i contenuti del suo “dialogo” con Massimo Bartolini per la 60a Biennale d’arte di Venezia.
Per gioco o per errore, ma anche per amicizia, nell’arte e nella vita. Sono queste le coordinate, umanissime e fuori dal coro, racchiuse nel Padiglione Italia di Massimo Bartolini, in arrivo con la sessantesima Biennale di Venezia (dal 20 aprile al 24 novembre 2024). Lo strafalcione è distillato in un calembour: Due qui/To hear, titolo che ci conduce a sviare tutte le certezze racchiuse in una traduzione scorretta. A tirare le fila del progetto è Luca Cerizza, curatore indipendente per vocazione, con la sua vita a tappe, in un viaggio che lo conduce da Berlino a Mumbai. Milanese, classe 1969, dopo gli studi all’Università Statale, a fine anni Novanta è ad Amsterdam. Nel 2000 a Berlino, dove apre la strada a molti artisti italiani expat nella capitale tedesca. Nel 2014 raggiunge l’India. Qui, incontra Zasha Colah, sua moglie, curatrice oggi alla guida della Biennale di Berlino 2025.
Cosa l’ha condotta a posare il suo sguardo sull’arte contemporanea?
«È stato un avvicinamento progressivo, per epifanie. Un generico interesse per l’archeologia ha preso la strada della contemporaneità, procedendo dall’incontro con la storia dell’arte in università a una tesi in critica; dalle prime mostre curate al corso per curatori ad Amsterdam, al De Appel, dove conosco Lawrence Weiner e Vito Acconci».
Tra le prime esperienze?
«La rivista Cross è stata un’esperienza intensa, fondata per compensare la mancanza di spazi espositivi negli anni ’90 a Milano».
E il primo incontro con l’opera di Massimo Bartolini?
«Nel 1996, con una sedia-scultura, che integrava già il suono. Era in una mostra nel mio appartamento».
Chi altro esponeva in quella mostra?
«Le opere di Tillmans erano in camera. I ghiaccioli di Vedovamazzei in frigorifero, i lavori di Martegani nel forno».
Quali tappe delineano il suo dialogo con Bartolini?
«Una decina di mostre, tra cui la personale al Pecci di Prato nel 2022, ma anche una manciata di testi critici e due cataloghi, come quello nel 2007 della mostra al Museo de Serralves a Porto».
Perché restare a Berlino quasi quindici anni?
«Era appassionante, una scena tutta da indagare, da Elmgreen & Dragset alla musica elettronica di Carsten Nicolai. E poi era l’occasione di portarla in Italia, come Tino Sehgal, da Massimo Minini; oppure Tomás Saraceno a Genova da Pinksummer, entrambi nel 2004».
Dieci anni dopo ha scelto l’India. Perché?
«Tra le ragioni c’era la musica, quella indiana tradizionale, così in sintonia con le sperimentazioni d’avanguardia degli anni Sessanta che stavo studiando. E poi lì ho incontrato mia moglie Zasha. Il suo lavoro da curatrice era più esplicitamente politico e sociale, ma con lei ho curato molti progetti, come, nel 2017, la Biennale di Pune, città di otto milioni di abitanti a tre ore da Mumbai. L’India è stata la porta di accesso a una scena sconosciuta».
Vista da lontano, che cosa rappresentava la Biennale di Venezia?
«La madre di tutte le rassegne, da qualsiasi angolo del mondo la si osservi. Nel 1993, avevo 24 anni, il flash, fisico ed emotivo, con il pavimento spezzato di Hans Haacke al Padiglione tedesco è stato indimenticabile. Mi ha sempre colpito il coraggio della Germania alla Biennale di Venezia, oltre le mode. Anche le installazioni di grande formato di Szeemann sono state delle pietre miliari, seppur figlie di un ottimismo ormai lontano».
Alla NABA di Milano da quasi vent’anni, quale idea di esposizione ha trasferito ai suoi studenti?
«La mostra è un mondo temporaneo. Un dispositivo della visione e della conoscenza che ha coerenza e vita interne. È una forma di narrazione in cui lo spettatore organizza percorsi e tempi con una libertà di scelte che pochi altri media hanno».
Per decenni è stato free-lance, che cosa ha seminato l’instabilità nella sua pratica?
«Dal parcheggio alla strada a ex officine industriali, da palazzi antichi al white cube, non ho mai avuto lo stesso spazio per più di due o tre mostre. Questo mi ha insegnato a sintonizzarmi su luoghi sempre diversi con una certa economia di mezzi. È un approccio più empirico».
Una mostra che la rappresenta?
«La personale di Tino Sehgal alle OGR a Torino nel 2018. Senza segni tangibili, solo flussi di energia e di movimento attraverso trenta performer, una totale smaterializzazione dell’opera».
Musica, architettura, suono, parola. Alcuni di questi elementi confluiranno a Venezia?
«Certo. Sono coinvolti musicisti e scrittori. Le opere di Bartolini contengono spesso tracce registrate, ma anche suoni e musica dal vivo, un aspetto condiviso da sempre tra noi, come le esperienze filosofiche, culturali e musicali di tradizione millenaria che provengono dal Pianeta India».
Cosa rende attuale quella musica ai vostri occhi?
«L’attenzione all’ascolto, un tema centrale oggi, in contrasto con l’esasperazione e la velocità estrema che viviamo».
Qual è il ruolo della Natura?
«Centrale e di grande attualità, un tema sviluppato quando il dibattito culturale era ancora distante. In fondo Bartolini ne fa anche una scelta di vita, con il suo studio immerso nella campagna di Cecina, in Toscana».
E il titolo del Padiglione, perché “sbagliarlo”?
«Materializzare una traduzione impossibile valorizza il senso del dialogo concepito per ascoltare e conoscersi. L’incontro, per questo, fisico e percettivo con l’opera di Bartolini è sempre propedeutico a un ascolto. Ricordo la stanza in cui aveva allestito 500 amplificatori velati. Quella massa sonora travolgente era attivata da un sassofonista, che cercava di farli risuonare. Fare tuning con quelle sorgenti di suoni era un tentativo di accordarsi nelle differenze».
Ci appare una grande metafora oggi.
«Ed è centrale nella sua opera. È da sempre racchiusa nelle sue installazioni, nelle sue stanze, in fondo concepite “per costruire attenzione e ascolto”».