Carlo Carrà: il suo percorso
Dalle Figlie di Loth al Realismo Magico
Carlo Carrà è stato un pittore italiano di grande rilevanza nel contesto del movimento futurista e del Novecento artistico. La sua opera "Le Figlie di Loth" rappresenta un significativo esempio della sua produzione e del suo impegno nell'ambito dell'arte moderna.
"Le Figlie di Loth", realizzato nel 1919, è un dipinto che riflette la fusione di diverse influenze artistiche presenti nell'opera di Carrà.
Carrà non si limita semplicemente a seguire la poetica futurista. Nel corso degli anni infatti, si allontanò gradualmente dai princìpi più radicali del movimento e si avvicinò a una pittura più oggettiva, incentrata sull'approfondimento dell'arte italiana tradizionale e sulla ricerca di una nuova sintesi tra passato e presente. "Le Figlie di Loth" può essere considerato un punto di transizione in questo percorso artistico, testimoniando il talento e la complessità di Carrà nel suo impegno a esplorare nuove vie espressive nel panorama artistico dell'inizio del XX secolo.
Nel 1919 Carlo Carrà realizza il dipinto Le figlie di Loth (Mart, Museo di Arte Contemporanea di Trento e Rovereto), un’opera molto significativa all’interno del percorso dell’artista ma anche per la temperie culturale, quella del cosiddetto “ritorno all’ordine”, di cui può essere considerata un esempio più che significativo. Si tratta, com’è noto, di uno dei temi più scabrosi dell’iconografia veterotestamentaria: l’incesto per la prosecuzione della discendenza. Carrà lo interpreta con intelligenza, isolando un momento non facilmente identificabile del racconto biblico e risolvendolo in una visione enigmatica e sospesa, dove i gesti sono congelati in una ritualità immobile. Architetture classicheggianti, rocce e arbusti completano la scena, alludendo forse alla capacità della Natura di autorigenerarsi. Ma, al di là dello spunto biblico, il dipinto – cui sono collegabili varie opere grafiche coeve – può essere inteso come una metafora della stagione pittorica vissuta dall’artista, che, dopo il periodo metafisico, rinnova il proprio stile a partire da un’evoluzione interna e necessaria della propria ricerca.
A questa data Carrà ha già collezionato un nutrito bagaglio di esperienze artistiche e di linguaggi.
Giunto a Milano nel 1895 dalla provincia di Alessandria, si è formato presso l’Accademia di Brera ma anche a contatto con le grandi collezioni della città – il Poldi Pezzoli, le raccolte braidensi e del Castello Sforzesco – in una stagione culturale in cui la ricerca pittorica più avanzata è quella dei divisionisti. È questo uno spunto linguistico che si precisa anche a contatto con gli impressionisti e i postimpressionisti, osservati direttamente in un soggiorno parigino. Dopo l’adesione al Futurismo marinettiano e in seguito alla conoscenza dell’avanguardia picassiana, Carrà modifica il suo linguaggio in direzione cubista, come dimostra la scomposizione finemente “analitica” de La Galleria di Milano; tuttavia, rispetto al dinamismo plastico boccioniano, c’è una maggiore attenzione alla ricerca costruttiva e all’essenza volumetrica, elementi che si possono considerare costanti in tutta la produzione dell’artista. Se nel Ritratto di Soffici del 1914 è ancora evidente la riverenza per i principi della scomposizione volumetrica e della simultaneità, Carrà intanto sta maturando nuove considerazioni e prospettive di ricerca.
Come ha notato Calvesi, quella del Futurismo è per Carrà solo “un’ipotesi di lavoro”, che presto mostrerà un suo limite: «Il dato memoriale [...] andava respinto in una lontananza assai più profonda, a da quella lontananza smaterializzante richiamato ad agire sulle cose, sulle “cose ordinarie”»; è in questa fase cruciale della carriera di Carrà che si precisa fortemente un «ammonimento alla semplicità e alla concretezza».
Il contributo "Parlata su Giotto" pubblicato su «La voce» del 31 Marzo 1916 è premessa importante per comprendere la svolta arcaizzante abbracciata dal pittore. Giotto, con Paolo Uccello, Masaccio e Piero, diventano riferimenti per una poetica della compostezza e della quiete. Un apprezzamento che trova un’eco significativa anche negli scritti dechirichiani: ne Il senso architettonico nella pittura antica (1920) anche De Chirico elogerà Giotto e i primitivi, concentrandosi sul fascino enigmatico delle architetture presenti nei loro dipinti.
L’amore per Giotto è una delle chiavi per comprendere la stagione metafisica di Carrà e la via del tutto originale attraverso cui l’artista fuoriesce dalle atmosfere tumultuose del Futurismo per approdare alle scene silenziose e sospese del periodo della Metafisica. Giotto indicava a Carrà la via di una visione allo stesso tempo naturalistica e contemplativa, nella quale la narrazione è sospesa in una atemporalità che fa pensare alla dimensione del mito. Questo azzeramento del tempo si riscontra già ne Le figlie di Loth: qui
«il nostro artista, da autentico “primitivo laico”, raccoglie i frutti delle sue lunghe appassionate meditazioni su Giotto. È il momento in cui egli consapevolmente si arrovella sulla possibilità di conciliare due esigenze entrambe irrinunciabili: il bisogno di “astrazione” e quello di “immedesimazione con le cose”».
L’incontro con De Chirico avviene a Ferrara nel 1917: pur in una comune ispirazione, si tratta a ben vedere di «due metafisiche» (Briganti), dato che
«Carrà [...] credeva in modo diverso da De Chirico nel peso spirituale e nell’autorità morale dell’antica pittura che da qualche anno aveva cominciato ad amare intensamente. E nel dipingere questi suoi “sibillini acrostici” cercava un solido appoggio nelle esperienze visive nate dalle sue meditazioni su Giotto e da quelle, più recenti, su Paolo Uccello. Si ostinava cioè a intendere il linguaggio della pittura, il “corpo della forma”, per usare una sua espressione, come un mestiere del tutto estraneo a speculazioni di natura letteraria. E soprattutto non vi è nulla in lui, negli anni, di quel tanto di nordico, di non italiano, di quel sentimento nostalgico, di quel sottile spaesamento psichico che spingeva De Chirico a evocare la pittura antica e a costruire il suo “theatrum Italiae”».
Se è vero che è assente in Carrà il sostrato romantico-simbolista assorbito da De Chirico nella formazione monacense e rintracciabile in precise, letterali citazioni böckliniane, è vero anche che il rapporto di Carrà con la cultura artistica tedesca merita qualche parola in più, in quanto è documentabile l’influenza del Carrà futurista su Grosz e Klee e quella del Carrà metafisico su Ernst e Schlemmer: proprio a Le figlie di Loth di Carrà si ispirerebbe il dipinto La tavolata di Oskar Schlemmer (1923).
È noto che il concetto di “primitivo” è un campo semantico molto vasto, che fra l’altro include l’arte arcaica, il disegno infantile, l’arte extra-europea, popolare e naïve. A questo proposito è stato opportunamente notato come, nel recupero della forma plastica intrapreso da Carrà alla metà degli anni Dieci, sia presente anche un riferimento preciso al primitivismo del Doganiere Rousseau.
Il 1919 è anche l’anno di Natura morta metafisica, dell’inizio della collaborazione con la rivista «Valori plastici» e della pubblicazione dello scritto Pittura metafisica. Carrà guarda con attenzione al dibattito promosso da Mario Broglio in seno alla rivista, precisando l’orientamento che la propria ricerca ha intrapreso da qualche anno nella direzione della semplicità formale e cromatica. Non è un caso, forse, se il 1920 è caratterizzato da un’intensissima produzione di disegni e se nel 1921 vede la luce quel Pino sul mare che può essere considerato il manifesto del cosiddetto Realismo magico (o mitico, anche se Carrà parla di Neorealismo), miracoloso equilibrio fra ricordi giotteschi e suggestioni novoggettive. La recente mostra tenutasi a Rovereto, Helsinki ed Essen sul Realismo magico ha riunito significativi esempi di questa tendenza, testimoniando quanto ampiamente sia stata rappresentata nella pittura italiana da artisti di varia cultura ma i cui tratti comuni sono l’esattezza della visione, le atmosfere rarefatte, il processo di sublimazione cui è sottoposta la realtà.
L'arte dopo la guerra: Surrealismo e Metafisica
All’indomani della guerra nascono – più o meno uniformemente in Europa – due percorsi distinti: la via della fuga dal reale (quella tratteggiata dal Surrealismo e dalle poetiche visionarie, nichiliste e irrazionaliste) e la via del recupero della tradizione. Primo movimento in ordine cronologico a operare in questa direzione dopo la rivoluzione futurista, la Metafisica propone una figurazione precisa benché allusiva, in un cortocircuito fra realtà e sogno che si nutre di dotti riferimenti all’Antico e al Quattrocento.
Novecento
«Valori Plastici», pur nella brevità di questa esperienza (chiude nel 1922), dà ulteriore forza al recupero dei Maestri del Trecento e del Quattrocento. Il gruppo Novecento, esordendo ufficialmente alla Biennale del 1924, è forse il sintomo più controverso del “ritorno all’ordine”, pur nell’eterogeneità dei riferimenti che caratterizzano i suoi vari esponenti. In questo contesto variegato risalta l’accezione particolare secondo cui Carrà declina quella impegnativa parola: “tradizione”. Non si tratta di disseppellire reperti del passato tardomedievale ma di attingervi spunti per una riforma della pittura italiana contemporanea nel segno di un delicato equilibrio fra tradizione e modernità. È lo stesso artista a precisare:
«Sperare di ricostruire l’arte unicamente sul concetto di “tradizione” non è meno vano che credere di poter ricostruirla poggiando sopra le sabbie mobili della “novità” per la novità. Le due antinomie nascono e muoiono insieme, perché entrambe sono presunzioni senza senso. Ma la mania di fare il “vecchio” è ancor più condannabile di quella che fa consistere l’arte unicamente nel concetto di “novità”, e sarà sommariamente ridicolo vedere pittori di vent’anni posare a ottantenni».
Carrà prosegue dritto per la sua strada, declinando con serietà una poetica della forma asciutta e rigorosa, che accompagna a ben vedere tutta la sua ricerca e che rende necessaria la lettura unitaria dell’intero percorso dell’artista. La grande mostra svoltasi a Palazzo Reale dall’ottobre 2018 al febbraio 2019 costituisce la tappa più recente della riflessione su questo grande protagonista del Novecento. L’esposizione ha preso le mosse dal 1937, anno in cui Roberto Longhi, in una piccola monografia corredata da 33 tavole, riconosceva il ruolo di Carrà come colui che ha “riavviato poderosamente” la pittura italiana, portandola finalmente fuori dal retaggio ottocentesco macchiaiolo.
Dapprima con la formula rivoluzionaria del Divisionismo e del Cubo-futurismo, poi con la plastica oggettività della stagione metafisica e del Realismo magico, Carrà ha indicato agli artisti italiani una nuova direzione, illustrando come la modernità non si accompagni necessariamente alla feroce negazione del passato – come i futuristi hanno propugnato – e che il ritorno alla tradizione può essere una scelta rigenerante e benefica, purché vissuta senza revivalismi e nostalgie bensì come reale risorsa per il rinnovamento della ricerca artistica.