Credits: Jean Louis Mezieres

Botta, Balla e Dorazio

di Francesco Poli

L'architetto mette in dialogo i due maestri italiani del 900

BALLA-DORAZIO Una storia di affinità elettive
Dialogo tra due maestri italiani del ’900. Di generazioni diverse, ma di uguale grandezza. Nel segno dell’astrazione pura.

Una mostra esemplare incentrata sull’affinità elettiva, nel segno dell’astrazione pura, fra due grandi artisti italiani di generazioni diverse messi in dialogo fra loro attraverso un allestimento perfetto concepito da un grande architetto, Mario Botta. Così si può definire in sintesi l’esposizione "Balla ’12 Dorazio ’60. Dove la luce" che si è aperta negli spazi della Collezione Giancarlo e Danna Olgiati a Lugano.

 

«Il progetto di questa mostra», ci dice la curatrice Gabriella Belli, «nasce nel 2021 da un’idea di Danna Battaglia Olgiati. È un omaggio a due fra le maggiori figure dell’arte italiana, Giacomo Balla, tra i padri dell’avanguardia, e Piero Dorazio, protagonista dell’astrattismo degli anni ’50/’60. È anche un’occasione per una riflessione critica sul valore dell’eredità futurista nella pittura del Secondo dopoguerra. Balla era stato quasi dimenticato fino alla mostra del 1951 alla Galleria Origine di Roma, che suscita l’attenzione dei giovani astrattisti. Dorazio è tra i primi a rivalutare l’importanza del vecchio artista di cui diventa amico frequentando assiduamente la sua casa».

 

E per quello che riguarda il titolo della mostra, ci spiega che "Dove la luce" è la citazione del titolo di una poesia del 1930 di Giuseppe Ungaretti, una scelta non casuale perché il poeta era ammiratore di Balla e anche amico di Dorazio, che aveva illustrato con tredici litografie un suo volume di poesie nel 1971. L’esposizione mette in scena quarantasette opere in tutto. Quelle di Balla fanno parte dello straordinario corpus di disegni, acquerelli e dipinti astratti del 1912-13, le cosiddette Compenetrazioni iridescenti, mentre le grandi tele di Dorazio sono quelle della serie delle Trame, iniziata alla fine degli anni Cinquanta. Entrambe le sperimentazioni sono state di breve durata eppure, come sottolinea Belli,

«nella prospettiva di una continuità tra avanguardie storiche e pittura del Secondo dopoguerra, la contiguità davvero speciale di queste esperienze ci appare come un tassello ancora di fondamentale importanza su cui vale la pena di continuare a indagare».

E questa mostra è certamente un importante contributo in tal senso.

Giacomo Balla (Torino, 1871 – Roma, 1958), che aveva adottato la tecnica divisionista all’inizio del secolo, conosce bene la legge del contrasto simultaneo dei colori e l’uso dei colori primari e complementari accostati sulla tela a piccoli tocchi per creare effetti cromatici di più accentuata e vibrante luminosità a livello di percezione retinica. Basandosi su questo metodo pittorico arriva a dipingere nel 1910- 1911 la Lampada ad arco, una composizione quasi astratta che è un’esplosione di coni luminosi che formano una raggiera con i colori dell’iride.
È questo il punto di partenza degli straordinari studi cromatici in configurazioni puramente astratte geometriche, del 1912-1913, da lui definite Iridi, ma che hanno poi preso il nome di Compenetrazioni iridescenti. Si tratta di una serie di piccoli disegni a matite colorate e acquerelli, raccolti in alcuni taccuini; di fogli a tempera e acquerello, e anche di qualche composizione più compiuta tra cui in particolare la tela Compenetrazione iridescente n.7 (1912) con una cornice sagomata a spicchi triangolari, pensata dall’artista come parte integrante dell’opera. Sono lavori che formano un repertorio di variazioni geometriche triangolari, a cerchio, a raggiera, e con ondulazioni a nastro, che vibrano luminosamente per contrasti simultanei dei colori dell’arcobaleno. Questa ricerca viene sviluppata dall’artista durante i suoi soggiorni da luglio a novembre del 1912 a Düsseldorf nella villa della famiglia Löwenstein, che gli aveva commissionato la decorazione della stanza dello studio (che purtroppo è stata distrutta). La maggior parte delle opere fa parte delle collezioni della Gam di Torino, che le aveva acquistate in blocco dalla Galleria dell’Obelisco di Roma nel 1968. Alcuni storici dell’arte hanno considerato questi lavori come veri e propri esempi del nascente astrattismo, ma senza sminuire la loro straordinaria importanza c’è da dubitare che Balla avesse effettivamente in mente di elaborare una pittura puramente astratta (senza valenze decorative), e forse così si spiega perché questa fase sperimentale sia stata quasi subito interrotta. E però è anche vero che nel manifesto La ricostruzione futurista dell’universo, del 1915, lui e il cofirmatario Fortunato Depero si definiscono “astrattisti futuristi”.

 

Già nel suo testo del 1955 La fantasia dell’arte nella vita moderna Piero Dorazio (Roma, 1927 – Perugia, 2005) sottolinea il ruolo fondamentale di Balla anche per gli sviluppi dell’arte astratta e scrive, con il suo tipico stile polemico:

«Balla sarà l’unico che, rimasto solo fra pittori di poco ingegno e assolutamente impreparati alle nuove esperienze, cercherà coraggiosamente fra l’indifferenza e derisione delle soluzioni alla pittura futurista nel nuovo stile dell’arte astratta».

L’affinità elettiva che lega Dorazio al maestro futurista si rivela poi nel modo più interessante e puntuale, nella fase sperimentale che va dal 1958 al 1963 circa, quella in cui realizza il ciclo delle Trame. Diciassette grandi tele di questa serie sono esposte da Dorazio nella sua sala personale alla Biennale di Venezia del 1960. Tra queste ci sono anche Endice rosso, Chief e Lettura al rosso che sono presentate qui a Lugano, insieme a una ventina di altri dipinti strettamente affini come Senza titolo (Order), Crack verde e Crack bleu del 1959; Sansom, Ricerca operativa, Passione diffusa, Troppo segreto (1961), Primo viaggio, del 1960 e 1961; Totale: giallo, Few roses, Tenera mano e Allo scoperto, del 1963. Le superfici delle tele sono occupate interamente da fittissime tessiture di linee-colore verticali, orizzontali e oblique, che l’artista ha così descritto:

«Tratti in successione che creano nell’occhio la sensazione di una linea che in realtà non esiste. Se uno la misurasse con una riga noterebbe che è sinuosa; l’occhio infatti corregge per sua virtù i difetti della realtà».

Il ciclo delle Trame si sviluppa con grande coerenza e rigore attraverso una raffinata gamma di varianti che intervengono soprattutto sul grado di luminosità del colore, sugli effetti percettivi determinati dalla dialettica fra fondo e superficie. In certi quadri del 1963, come Time blind e Tenera mano, la tramatura si sfalda leggermente per mettere in evidenza l’anima interna del processo di esecuzione e, come dice Dorazio, per aprire uno spazio «di illuminazione improvvisa della coscienza, un modo di visualizzare l’attimo fuggente». I dipinti con i reticoli più fitti e con i contrasti cromatici meno evidenti, visti da lontano, producono un effetto percettivo quasi monocromo, ma che a una visione ravvicinata viene smentito dal fascino sottile delle vibrazioni luminose determinate da pennellate lievemente filamentose. In mostra c’è anche un dipinto successivo, del 1966, che si intitola Din don (omaggio a Giacomo Balla n°2), in cui Dorazio riprende dal maestro futurista la tensione dinamica delle onde fluttuanti, un motivo che sarà sviluppato anche in successivi lavori.

BALLA ’12 DORAZIO ’60. DOVE LA LUCE. Lugano, Collezione Olgiati (collezioneolgiati.ch). Dal 24 settembre al 12 gennaio 2024.