Alberto Burri

Città di Castello (PG), 12 marzo 1915 - Nizza, 13 febbraio 1995

Alberto Burri segue gli studi di medicina laureandosi nel 1940 e nel corso della Seconda Guerra Mondiale si arruola come ufficiale medico. Nel 1943 viene catturato dagli americani e internato nel campo di concentramento di Hereford, in Texas. Il periodo di detenzione segna l’inizio della sua carriera artistica. Tornato in Italia nel 1946, infatti, decide di lasciare definitivamente la medicina per dedicarsi all’arte.

 

La sua ricerca si concentra sul linguaggio astratto e già nel 1947 tiene la sua prima personale presso la galleria La Margherita a Roma. Una serie di opere, preparate negli anni Cinquanta, attira l’attenzione della critica: si tratta delle “Muffe”, che assieme ai “Gobbi” e ai “Catrami” compongono la base della sua poetica artistica. Le opere sono create con la pietra pomice, con gli smalti, ma non solo. Burri introduce anche la modellazione, soprattutto in opere con una connotazione più plastica.

 

Nel 1950, assieme a Ettore Colla, Mario Ballocco e Giuseppe Capogrossi, dà vita al Gruppo Origine, un movimento che si proponeva di «tornare alle radici, alle origini» dell’arte, azzerando di fatto «la degenerazione manieristica dell’Astrattismo». Il movimento ebbe vita breve: nel 1951 si sciolse, non prima però di una discussa e autoreferenziale esposizione romana nella galleria del Gruppo stesso.

 

È in questo periodo che Burri crea il suo filone più noto, quello dei “Sacchi”, in cui sceglie di utilizzare sacchi di juta incollati su una tela a fondo rosso o nero. Nonostante la polemica innescata proprio dall’utilizzo del materiale povero, le opere sono invece destinate a un grande successo e nel 1952 espone per la prima volta alla Biennale di Venezia proprio con un’opera di quella serie. L’anno successivo espone a Chicago e a New York, continuando la sua ricerca, utilizzando altre tecniche e diversi materiali, mantenendo come cardine la sua poetica della consunzione, dei rifiuti, in cui l’arte è solo una conseguenza dell’utilizzo e dell’usura dei materiali impiegati.

 

Negli anni Settanta inizia il ciclo dei “Cretti”: l’opera più importante resta quella per Gibellina, distrutta durante il terremoto del Belice nel 1968. Burri progetta un “momento della morte” di circa 10 ettari, sulle macerie del sisma. Nel 1976 inizia a lavorare sui “Cellotex”, ancora un materiale povero con cui l’artista crea opere tormentate, definite anche “opere al nero”. Nel 1978 nasce la Fondazione Burri a Città di Castello, per volere dello stesso artista, che a questa donerà trentadue opere. Sarà poi aperta al pubblico nel 1981.

 

Le opere di Alberto Burri hanno rimesso in discussione il concetto di arte che imita la vita, sottolineando una funzione più pragmatica e realista della visione stessa dell’esistenza umana.