Opera di Banksy in Cisgiordania, bambina e soldato
Credits: Dan Meyers on Unsplash

Street art: dal muro al museo

Mostre di street art come arte di frontiera

Esplorazione dell'evoluzione della Street art, da graffiti ribelli a forme d'arte urbana accattivante nel cuore delle città.

Street Art: una evoluzione

Come siamo passati dal chiderci "Come si chiamano i disegni sui muri" a "Quali valori esprimono i murales sul Muro di Berlino".

Se, fino a una decina di anni fa, si era abituati a vedere la Street Art solo sui muri delle città o sulle fiancate dei treni, oggi il fenomeno è entrato a pieno titolo nel “sistema” artistico, che ormai conta più di una mostra all’interno di importanti sedi museali e numerose gallerie che gestiscono l’esposizione e la vendita delle opere degli street artists. Certo, il cammino fino a questa meta – pur controversa per gli esponenti più fedeli allo spirito delle origini – è stato lungo e contraddittorio, ma il risultato è che un genere artistico sorto come movimento illegale nelle periferie e nelle metropolitane delle città oggi ha conquistato gli spazi patinati ed esclusivi dei musei, delle gallerie e delle riviste specializzate.

 

Arte e artisti di street art: come la pensano gli storici dell'arte

Parlare di Street Art non è semplice: si tratta di un universo multiforme e poliedrico, solo di recente inquadrato dal punto di vista storico e critico e di fronte al quale ci si continua a porre con atteggiamento oscillante: è un’infrazione da sanzionare o un investimento promettente?

Da parte delle pubbliche amministrazioni e degli addetti ai lavori, lo sguardo è ora di rimprovero ora di accondiscendenza e mecenatismo, mentre negli artisti stessi permane l’indecisione fra il “partecipare alla festa del Re” o il “fare la festa al Re”.

Non a caso, già nel 1982 la Street Art era stata opportunamente situata da Alinovi in una zona di frontiera. Anche gli storici hanno sensibilmente cambiato atteggiamento: se l’approccio del volume di Migliorini "L’arte e la città" (1975) descrive ancora le due realtà enunciate nel titolo come destinate a una dialettica irrisolvibile – o l’opera d’arte crea attorno a sé un perimetro non profanabile, estraniandosi dall’area urbana; oppure non può che verificarsi l’annichilimento del valore artistico dell’opera nel continuum del tessuto urbano – si percepisce uno sguardo ben diverso, trent’anni dopo, in "Fuori cornice".

L’arte oltre l’arte, che sembra confinare al passato quello «sguardo, rispettivamente, antropologico, clinico e poliziesco» con cui autorità e sistema ufficiale si rivolgono all’arte di strada. È indubbio che personalità eclatanti come Keith Haring e Jean-Michel Basquiat (o, per guardare al presente, quella inafferrabile di Banksy) hanno spinto gli studiosi a guardare con un’ottica storiografica a questo nuovo “sintomo” della cultura contemporanea, ricercandone le matrici culturali e le ragioni interne al sistema delle arti figurative.

Street Art, Graffiti a muro

Difficile da inquadrare a partire da paradigmi storico-critici già noti, la Street Art e il Post Graffitismo sono stati sovente ricondotti a categorie consolidate, come ad esempio quella di Art Brut, con cui Dubuffet descriveva fenomeni programmaticamente alternativi all’arte “culturale”. Altri hanno sottolineato l’analogia fra l’arte di strada e il Situazionismo, specialmente per quella concezione della città come scenario in cui agire, costruendo appunto “situazioni” ludico-costruttive atte a causare

«spiazzamento, cambiamento del punto di vista, rottura dei codici e delle “normali” relazioni instaurate nella routine urbana, détournement di senso dei consueti elementi architettonici e segnici nella normale vita della città»

(A. Riva, Street art Sweet art, in Street art sweet art. Dalla cultura hip hop alla generazione pop up, a cura di A. Riva, Skira, Milano 2007).

Il détournement è un meccanismo volto a indurre un distacco consapevole rispetto ai messaggi che solitamente vengono ricevuti in modo acritico e passivo. Altro elemento in comune fra molti street artists e il movimento situazionista è il rifiuto di applicare il copyright alle opere.

La nascita della Street Art

Sul fenomeno del Graffitismo molto è stato scritto: c’è chi ne ha individuato l’origine nel Muralismo messicano, i cui spazi eletti erano le calles e in cui si può rintracciare quella «operatività estetica nel sociale» che Crispolti identifica come tratto distintivo della Street Art; chi nel fenomeno spontaneo con cui, alla fine della seconda guerra mondiale, gli alleati anglo-americani riproducevano in serie il graffito Kilroy was here sui muri delle aree appena liberate, affiancandovi l’icona di un omino calvo e dal grosso naso.

Kilroy was here, graffito degli alleati anglo-americani in Europa
Wikimedia Commons
Kilroy was here

Più verosimilmente l’emergere del Graffitismo è collegabile alle rivendicazioni delle minoranze razziali sorte alla fine degli anni Sessanta: è del 1967 il murale Black Pride, Black Power, indicato da Lacy come prima espressione della new genre public art.

Il pugno chiuso, una delle prime forme di graffitismo, in questo caso ricollegabile alle rivendicazioni delle minoranze razziali negli Stati Uniti.
Mike Von su Unsplash
Il pugno chiuso, una delle prime forme di graffitismo, in questo caso ricollegabile alle rivendicazioni delle minoranze razziali negli Stati Uniti.
Street art vs graffiti

Come inquadrare questi fenomeni che sorgono al di fuori del sistema artistico istituzionale? Baudrillard, negli anni Settanta, è il primo a utilizzare il terminegraffiti” per definire le scritte dei writers. Incerti sull’approccio metodologico più appropriato, i primi contributi storico-critici prendono le mosse dall’analisi socio-culturale della civiltà postindustriale, sottolineandone – come fattori condizionanti – la sovrabbondanza di informazioni e stimoli mediatici, la deriva mercificatoria, il predominio della dimensione sociale e partecipativa. Sempre in riferimento al contesto, non si è potuto prescindere dal considerare la società multietnica e multirazziale statunitense, brodo di coltura dell’hip hop, una complessità di stimoli che influenzerà l’abbigliamento, il design, la danza, la musica (il rap), il linguaggio parlato (con l'emergere di gerghi e slang nei vari “ghetti”) e appunto le arti figurative: è nei quartieri multietnici che giovani neri e latinos iniziano a operare su muri e vagoni della metropolitana, “bombardando” con pennarelli indelebili lo spazio con la propria tag.

I primi bombers non sono mossi da intenti artistici ma dal semplice desiderio di segnalare il proprio “esserci”. Lentamente le lettere delle tags iniziano a ingrandirsi e a riempirsi di colori e sfumature, a variare nella forma e nel carattere grafico (una delle novità è lo spigoloso e puntuto, nonché ermetico, wild-style) e ad abbinarsi a elementi figurativi.

 

Non esiste una poetica comune tra i writers, che lavorano da soli o riuniti in bande (crew). Pian piano però i loro “pezzi” non sembrano avere solo intenti comunicativi ma anche artistici ed estetici, e diventano patrimonio di una comunità, “viaggiando” sulle rotaie della metropolitana e toccando quartieri “alti” e periferici, potenzialmente rivolti al copioso pubblico dei pendolari e dei viaggiatori, «un interclassista melting pot di africani low-class e di bianchi borghesi» (A. Mininno, Graffiti Writing. Origini, significati, tecniche e protagonisti in Italia, Mondadori, Milano 2008).

 

In questa fase iniziale l’illegalità connota il Graffitismo al punto da esserne quasi una caratteristica fondante; le autorità agiscono spietatamente, reprimendo gli artefici e alimentando in loro quell’atteggiamento “contro il sistema” che resterà un tratto distintivo del writer. Tante le misure messe in campo per arginare od orientare il fenomeno: dagli arresti alle multe, dalla guardiania notturna dei depositi della metropolitana all'istituzione delle hall of fame (luoghi circoscritti dove l’intervento degli artisti è autorizzato).

Il riconoscimento artistico

Ed ecco il passaggio interessante ai fini di questa riflessione: alla metà degli anni Settanta la conquista della fama e della popolarità porta alcuni writers a uscire dall’anonimato, aspirando alla possibilità di esporre le proprie opere nelle aree museali e nelle gallerie. Parallelamente, il riconoscimento “artistico” dei writers dalle colonne del prestigioso New York Magazine (con l’articolo “Graffiti Hit Parade” del 26 marzo 1973) inaugura quella lenta trasmigrazione del graffito urbano dal “sistema” dei trasporti al “sistema” dell’arte. A questa trasmigrazione contribuisce anche un fenomeno di contaminazione culturale: se il Graffitismo delle origini viene da una cultura di «base popolare, di low cult, al limite delle manifestazioni dei bisogni antropologici primari», vicina alla definizione che Dewey dà di «arte come esperienza», oppure si caratterizza come “sottocultura” o “controcultura”, i writers della seconda metà degli anni Settanta cominciano ad adeguarsi ai canoni dell’arte ufficiale, dando vita a quella generazione che è stata definita Post-Graffiti.

Le nuove personalità dell’arte newyorkese sono prevalentemente «penne nere e visi pallidi», «artisti “bene” che, dopo aver scaldato il banco delle scuole di arti visive, hanno scelto la cultura dei fumetti, dei clubs e della televisione. Artisti bianchi insomma che, per via di scelta culturale, hanno deciso di accomunare la loro sorte a quella [...] dei musi neri emersi dai bassifondi sotterranei dei treni e dalle rovine urbane del South Bronx» (Alinovi, in Arte di frontiera. New York graffiti, da un pro- getto di F. Alinovi, a cura di M. Pasquali, R. Daolio, Mazzotta, Milano 1984). 

Graffiti e Pop Art: contro e assieme la pubblicità

Mentre accade questo delicato passaggio fiorisce la stagione della Pop Art. Nella “Factory” di Andy Warhol si rielaborano artisticamente icone mutuate dalla cultura di massa e dagli scaffali del supermercato e vi è di certo un legame tra questo movimento e la generazione Post-Graffiti se nel 1980 le famose lattine della zuppa Campbell compaiono, ad opera di Fab 5 Freddy, sulla linea 1st della metropolitana newyorkese. Eppure ci sono profonde differenze nel rapporto con la pubblicità, perché, se la Pop Art abbraccia l’immaginario degli spot, la Street Art desidera in certo modo “redimere” lo spazio urbano dall’assalto pubblicitario. In tal senso l’impegno “politico” degli street artists è spesso dichiarato: vogliono far riflettere sull’assuefazione ai brand che popolano lo scenario urbano oppure veicolare il disagio collettivo e ingaggiare silenziose azioni di rappresaglia (si è parlato di Guerrilla Art, di Brandalism o di Hacker Art 22). Non a caso alcune delle tecniche – come il poster e lo stencil – sono le stesse utilizzate nella propaganda politica.

Street art: dalla strada al muro

Il processo di contaminazione linguistica del Graffitismo deve molto a quegli artisti che citano la cultura pop e altri linguaggi consolidati; è naturale allora che l’élite degli addetti ai lavori cominci a guardare con sguardo nuovo e senza pregiudizi a questo «movimento estetico e culturale legittimo, nato da uno spirito rivoluzionario».

Il sociologo Martinez è tra i primi a proporre ai writers il trasloco dal muro alla tela; la fondazione, nel 1972, dell’associazione Uga (United Graffiti Artist) conferisce al fenomeno una cornice "ufficiale", fornendo un circuito promozionale e spazi espositivi anche nel cuore dell’esclusivo quartiere di Soho; nel 1974, il volume illustrato "The Faith of Graffiti", con un saggio di Mailer, sembra quasi una consacrazione ufficiale della Street Art. Sulla scia di questo primo avvio, l’artista e gallerista Eins, di origini austriache, fonda nel 1979 Fashion Moda, un laboratorio delle arti figurative «dalla composizione babelica, plurietnica e plurilinguistica» situato nel quartiere più degradato di New York, il South Bronx. Fashion Moda diventa in pochi anni, assieme al collettivo no-profit CoLab, la vera fucina dell’arte di strada, «una collezione di scienza, tecnologia, arte e fantasia» impegnata nell’organizzazione di performance e mostre temporanee. Il nuovo passo è segnato: nel quartiere dell’East Village aprono nell’arco di pochi anni circa settanta gallerie dedicate a vario titolo all’arte underground; le più prolifiche sono quella di Tom Shafrazi a Mercer Street, la Sidney Janis Gallery e la Fun Gallery. A breve, le esperienze di Haring e Basquiat confermeranno la possibilità del passaggio precipitoso dalla strada alla galleria.

La facciata esterna di Fashion Moda, South Bronx, nel 1981
Wikimedia Commons
La facciata esterna di Fashion Moda, South Bronx, nel 1981
La Street Art in Italia

Le prime manifestazioni dell’arte urbana in Italia sono situabili negli anni Settanta, nell’ambito di alcune azioni performative sperimentali, come Operazione 24 Fogli (1973), promossa da Crispolti con l’intento di riflettere sulla «persuasione occulta» esercitata dalla comunicazione pubblicitaria e di utilizzare il cartellone pubblicitario prodotto dagli artisti come strumento di “risignificazione” della città, fuori da ogni logica commerciale e capitalista.

Cinque anni dopo, Andrea Nelli pubblica il volume Graffiti a New York, sintomo dell’attenzione che il mondo accademico rivolge per la prima volta al fenomeno del Writing. Il contatto diretto con gli artisti statunitensi è testimoniato dal volume Spraycan Art (Street Graphics/Street Art), in cui viene citata la personalità del gallerista italiano Claudio Bruni e la sua pionieristica ricognizione dello scenario americano; si deve a Bruni anche la curatela della mostra, alla galleria La Medusa di Roma, di una personale di Lee Quinones, autore del primo whole train. Una grande spinta in avanti nel settore degli studi è dovuto ad Alinovi che, nel 1982, in seno alla VI Settimana Internazionale della Performance, promuove a Bologna l’evento Telepazzia, con la proiezione di alcuni video di Scharf ed Haring; due anni dopo, la mostra "Arte di frontiera: New York graffiti" espone in un percorso finalmente anche “storico” e di riflessione le opere di Futura 2000, Haring, Toxic, Lady Pink.

Dagli inizi degli anni Ottanta il Graffitismo conquista le gallerie italiane: le mostre "Latitudine Napoli New York" (Galleria Lucio Amelio), con opere di Keith Haring; la personale di Samo-Basquiat alla Galleria Mazzoli di Modena; la collettiva La Scuola di Atene, organizzata ad Acireale da Bonito Oliva, con opere di Haring, Basquiat, Rammel- zee ed altri artisti, non sono che alcuni dei primi esempi della penetrazione della Street Art nel circuito artistico ufficiale della Penisola.

Contemporaneamente si diffonde in Italia la cultura hip-hop e nasce la prima generazione di writers, che, se in un primo momento imita fatalmente i colleghi americani, successivamente manifesta l’esigenza di creare «qualcosa di nuovo, di italiano». Anche in Italia i treni cominciano diventare superfici per tags e il Bel Paese, per via della esigua vigilanza nelle stazioni e nei depositi ferroviari, diventa il «paradiso del trainbombing», capace di attrarre anche i writers stranieri alla ricerca di contesti decisamente poco persecutori.

I writers italiani conquistano una certa originalità alla metà degli anni Novanta, quando diviene evidente la ricerca di effetti estetici più ricercati. Se il Writing delle origini rifletteva soprattutto sulle lettere e la loro pur varia rappresentazione, quando «le lettere scompaiono per lasciar posto a personaggi, loghi o composizioni astratte» dobbiamo necessariamente parlare di qualcos’altro, e precisamente del passaggio dal linguaggio tipografico a quello iconografico. Possiamo parlare di Postgraffitismo e di Street Art vera e propria solo quando dalla cultura elementare dei writers si passa a usare tutto il repertorio di forme e di linguaggi che la cultura pop e massmediatica appronta, attingendo temi e immagini da fumetti, televisione, pubblicità, videogiochi, cartoni animati, loghi commerciali. Altri artisti riutilizzano in modo ora creativo ora irriverente la grande tradizione storico-artistica, come dimostrano i murales “colti” del toscano Ozmo.

Ozmo, al suon delle trombe, Rieti, piazza Bachalet
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Ozmo, al suon delle trombe, Rieti, piazza Bachalet

Vari gli atteggiamenti delle amministrazioni locali, che oscillano dalla repressione allo sguardo liberale: quelle più “illuminate” non solo abbandonano l’«etica di muri puliti, neutri, asettici» ma anzi si propongono come committenti e promotori, capaci di esercitare sul fenomeno della Street Art un controllo responsabile e persino utile all'estetica della città, offrendo occasioni di visibilità “autorizzata” a quanti desiderino uscire dallo status di illegalità. Presto si afferma anche in Italia la pratica delle hall of fame, spazio di compromesso con le istituzioni e perciò tendenzialmente guardato con sospetto dai writers duri e puri.

Non solo nelle strade: la street art sul web

Anche in Italia si assiste a una sorta di mutazione genetica degli artisti: se «il writing, il grafittismo e la tag muoiono fuori da un muro perché la strada è sostanza della loro arte» (A. Mininno, Graffiti Writing), gli street artists non solo possono esistere anche al di fuori della strada e del muro urbano ma anzi cercano di penetrare in spazi per così dire più istituzionali.

Se inoltre la fama dei writers si conquista nella città, gli street artists promuovono il proprio lavoro soprattutto sul web. Secondo Omodeo il Post-graffiti, da cui deriva la Street art, è «il risultato di un processo che, per quasi trent’anni, ha sottoposto i graffiti alle logiche del fermo-immagine»: la pubblicazione dei lavori degli artisti di strada sulla stampa specializzata, l’ingresso nelle gallerie e sui siti web ha fatto sì che le immagini “dinamiche” dei treni stancassero invece su posti statici, rendendo la rete una sorta di catalogo multimediale da sfogliare e incrementare, anche con l’ausilio di sistemi di localizzazione georeferenziata come Street art view e Murallocator o ancora attraverso piattaforme come Vimeo e Youtube.

Il ruolo degli street-artist: operatori culturali

La graduale penetrazione dell’arte urbana nel sistema ufficiale è dovuto anche a un fattore per così dire “biografico”: un artista può arrivare all’arte di strada dopo un percorso di formazione accademico o dopo avere esordito come writer, avere militato in una crew e avere “bombardato” per anni in incognito. Riva l’ha definita "generazione pop-up” capace di imporsi all’attenzione del pubblico «in maniera fulminea ed inaspettata, con la tecnica della guerriglia urbana ma anche quella dolce della seduzione pubblicitaria». In "Arti visive e partecipazione sociale" Crispolti confronta l’atteggiamento degli artisti d'avanguardia, che rispetto alla società assumevano un ruolo antagonista e deliberatamente provocatorio, con quello degli artisti contemporanei, che cercano nel pubblico un ruolo attivo e partecipativo, “interattivo” potremmo dire: gli street artists rientrerebbero allora a pieno titolo nella definizione di «operatori estetico/culturali», i quali ricercano una condivisione attiva da parte del pubblico e creano delle opere site specific e community specific. L’ambivalenza secondo cui gli artisti sono “dolcemente” passati dalla provocazione alla complicità con il pubblico trova opportuna la definizione di Perfetti, che ha parlato di «antropologi del contemporaneo che con ironia rimescolano le influenze di un presente».

Anche le tecniche esecutive seguono una sorta di doppio registro: da un lato c’è la modalità free-hand prodotta direttamente sulla strada, in genere con la bomboletta spray e con un’esecuzione veloce; dall’altro quella, per così dire, in studio, dei posters e degli stencils e di varie tecniche mutuate dalle fine arts. Se dunque, alle soglie del nuovo millennio, coesistono artisti “dissidenti” rispetto al circuito museale e artisti che, invece, rispetto al “sistema”, mostrano una spiccata “disponibilità”, bisogna dire che un’analoga divisione è riscontrabile nell'opinione pubblica e negli addetti ai lavori, divisi fra quanti auspicano l’integrazione di questa forma di «disordinazione sociale» e i rigoristi della legalità.

Street art a Milano e street art in Sicilia: una gestione differente

Milano Street Art

Nel 2006, il celebre caso del Leoncavallo Spa - “Spazio Pubblico Autogestito” esaspera la contrapposizione fra i sostenitori della «Cappella Sistina della contemporaneità» (è l’espressione usata da Sgarbi, allora assessore alla Cultura) e i detrattori di ogni forma di «legittimazione, né artistica né tantomeno politica»; la già citata mostra Street Art, Sweet Art, allestita al Pac nello stesso anno e introdotta da Sgarbi con un testo dal titolo "Finalmente prigionieri", dimostra il permanere irrisolto dell’aporia artisticità-vandalismo, benché l’evento espositivo dimostri la chiara propensione per la soluzione dialogante e per l’ingresso degli street artists nel circuito ufficiale. L’esposizione, ospitando ben 32 artisti e documentando una grande varietà di linguaggi, stili e tecniche, si configura come un ennesimo, utile tentativo di ricognizione storica di un fenomeno controverso. Successivamente la giunta milanese promuove il progetto Muri d’autore, volto a individuare, dal centro alla periferia, superfici per le quali sia auspicabile una riqualificazione estetica.

Palermo Street Art

È, in sostanza, la via del graffitismo controllato, a suo tempo suggerita da Barilli e applicabile ad alcuni interventi pianificati e specifici come ad esempio Street Art Village, svoltosi nel 2008 a Campofelice di Roccella (Palermo), a cura di D. Di Gesaro, un vero e proprio esperimento sociologico, urbanistico e antropologico, un intervento “animatorio-permanente” senza precedenti, con la partecipazione di artisti italiani e spagnoli e di due crew siciliane. Per restare in Sicilia, va citata anche la partnership pubblico-privata che ha promosso, nel 2015, Street art silos, intervento decorativo dei silos del porto di Catania da parte di artisti italiani e stranieri invitati appositamente.

Street art silos, porto di Catania
Marco Crupi su Flickr
Street art silos, porto di Catania
Il valore commerciale della Street Art

Ora, tratteggiato questo breve percorso storico, è interessante vedere come, nel passaggio dal muro della città al muro del museo e della galleria, e dall’illegalità alla committenza pubblica, la Street Art abbia acquisito un rilevante appeal commerciale, tanto che, a soddisfare le richieste di un collezionismo sempre più aperto a questa forma di espressione artistica, molte gallerie si sono specializzate nella vendita degli street artists. Il primato europeo spetta forse alla città di Londra, con gallerie come Andipa Gallery, Black Rat, Brick Lane, Lawrence Alkin, Nelly Duff, Pictures on Walls, Pure Evil, Signal, Stolen Space e Village Underground Co, Lazinc Sackville. Ma tutte le capitali europee contano ormai un significativo circuito di vendita specifico.

 

In Italia si può notare lo stesso trend: anche sulla scorta di alcune recenti mostre in importanti sedi museali (a Bologna "Street art. Banksy e co. L’arte allo stato urbano", nel 2016, che ha visto la protesta di Blu e una contro-esposizione all’aperto per contestare la commercializzazione e privatizzazione della "Street Art; War, Capitalism and Liberty" a Palazzo Cipolla a Roma nel 2016; al Macro di Roma Cross the Streets, nel 201751, solo per citarne alcune), molte gallerie e associazioni culturali si sono specializzate nella vendita della Street Art: a Milano Avantgarden Gallery, galleria Patrizia Armocida, Mode2, Stradedarts, Deodato arte galleria, Wunderkammern, JonOne; a Roma Galleria Varsi, Dorothy Circus Gallery, Galleria Dmake, 999Contemporary, ancora Wunderkammern (la prima a proporre in vendita nel 2011 le ricercatissime opere di Invader e promotrice, tra l’altro, di iniziative in spazi pubblici).

 

Questo elenco, già incompleto, potrebbe continuare, attraversando l’Italia da Nord a Sud, dalle città più popolose a quelle di piccole dimensioni. Più utile è forse però, a questo punto, qualche considerazione generale e qualche interrogativo: le regole della strada non sono intrinsecamente diverse dalle regole del mercato? La Street Art in galleria, o al museo, è in certo senso trasmutata, adulterata, o si può dire che mantenga lo spirito antisistemico delle origini? Come interpretare il fenomeno per cui, a corredo delle opere, fiorisce un merchandising (agende, t-shirts, adesivi, gadget vari) prodotto e firmato dagli stessi street artists e richiestissimo dal pubblico? Sembra ancora attuale e opportuna la domanda posta a suo tempo da Gablik nel libro "Has Modernism Failed?", in cui la studiosa si chiede se l’ingresso nelle gallerie non depotenzi «l’energia soul del graffitismo» e se il sistema sia davvero disposto ad accettare l’arte degli streeters o se piuttosto non la consideri solo un «nuovo giocattolo fabbricasoldi per i suoi membri». Di certo va riconosciuto alla Street Art il merito di avere “riconquistato” uno spazio, quello della città, che da troppo tempo l’arte aveva perso. Anche se risultano ancora attive le dicotomie delle origini – l’alternanza fra legalità e illiceità, la mescolanza di linguaggi high e low, un canale di diffusione ora istituzionale ora sovversivo – la Street Art è la nuova arte pubblica dell’era contemporanea; certo, forse l’ingresso nel circuito del collezionismo può apparire contraddittorio, ma “l’arte della strada” mantiene ancora, e fortemente, il presidio “urbano” da cui è scaturita, conservando l’ambizione a essere arte-per-tutti, partecipata, accessibile, democratica, e a pungolare il potere con una libertà di parola e un’immediatezza che a pochi artisti è dato sperimentare.