Mario Schifano a New York

La mostra al Magazzino Italian Art

Il 23 marzo Magazzino italian art, il museo e centro di ricerca per la promozione dell’arte italiana del Secondo dopoguerra di Cold Spring, New York, inaugura Germi- nal, la mostra dedicata allo studio comprensivo dei primi dieci anni di lavoro, dal 1960 al 1970, di Mario Schifano (1934-1998).

Capita sempre più spesso di vedere esposizioni in cui l’arte viene trattata come oggetto rappresentato solo dalle sue caratteristiche formali, o al meglio come un evento o un’esperienza catartica, per giustificare evidenti distanze dalla realtà. L’opera è diventata un “luogo”, uno spazio che afferma una volontà di presenza e di attività dell’artista, una velleità utopica o fantastica, che non può però essere ridotta solo all’aspetto esteriore, all’oggetto.
La percezione critica cambia a seconda delle diverse esperienze, non è un paradigma che precede l’opera e non deve sovrastarla con la supponenza di un preteso metodo. Le opinioni critiche, gli espedienti letterari e gli argomenti culturali correnti, spesso non solo non incrociano in maniera teorica le opere, ma neppure le tengono presenti nella loro fisicità. L’opera d’arte diventa tale solo quando viene notata dalla critica e in ultima istanza quando viene assunta dal mercato, altrimenti rimane solo un’espressione biografica. L’esercizio di ricerca allestito a Magazzino cerca di sollecitare la lettura del lavoro di Mario Schifano fornendo strumenti d’interpretazione, mettendo in rilievo i meccanismi interni alle opere, determinando correlazioni e incongruenze, esaminando la presenza o l’assenza di materiali e immagini e la loro composizione nello spazio. L’invito rivolto ai visitatori è quello di fidarsi più della propria prospettiva di osservatori e fare miglior uso della propria percezione che di ricette critiche precostituite, proprio perché porsi di fronte a un’opera è l’atto più immediato d’avvicinamento all’arte.

 

RAGIONI E CONTESTO.

Il lavoro e la vita di Schifano permettono di abbozzare un discorso ad ampio raggio su ragioni e contesto dell’azione artistica. La sua vicenda biografica è nota: nato nel 1934 nella Libia italiana, dove suo padre era archeologo nell’antica città fenicia di Leptis Magna, rinominata Homs proprio quell’anno dal fascismo. Rientra a Roma a 9 anni, nel 1943, in seguito del crollo del regime. Comincia a dipingere per evadere da una regolarità che non gli interessa. Schifano è stato pittore, ma anche musicista, fotografo, regista, scenografo, amico di letterati e personalità del “jet-set” internazionale. Dipingere serve per pensare, per mettere ordine, per rimettere insieme i propri pezzi. L’educazione «ci squarta», come diceva Giorgio Manganelli, «ci somministra il divorzio dell’anima dal corpo, della ragione dal cuore». I primi lavori di Schifano sono monocromi, in netta opposizione alla moda imperante che ipotizzava lo sviluppo della cultura artistica in un “ritorno alla pittura”, “al dipingere”, nel senso di una pittura accademica, artigianale, da cavalletto o al massimo come pittura narrativa, un nuovo tipo di realismo. La scelta iniziale di Schifano è opposta e radicale. Niente oggetto, niente narrazione, solo il titolo per evocare. Il resto è pittura. Questa impossibilità di significazione sta nel rifiuto di ogni legame, nell’annullamento del piano di racconto così da mettere in atto una diversa presenza della pittura, empirica, leggera, sdrammatizzata e funzionale al ritrovamento del proprio grado zero.

 

NON LUOGO.

L’abusato paragone con Andy Warhol, cui Schifano assomiglia per la sua prolificità più che per reali analogie, e l’idea di una subordinazione nei confronti dell’arte americana, hanno viziato l’analisi del suo lavoro in un contesto internazionale. Warhol usa colori pieni, in linea con la tradizione industriale, compone opere grafiche che hanno poco a che vedere con la pittura gocciolante di Schifano. I suoi monocromi sono dipinti irregolarmente. Il colore non è stampato e
si vedono le pennellate, le imperfezioni. Anche i temi appartengono a una cultura diversa: Schifano chiama Propaganda le immagini dei marchi industriali. I temi sono quelli della cultura pop di casa nostra: futuristi, paesaggi anemici, segnali. Eppoi, i titoli: Particolare di Propaganda (1962), Koka-Kola (1962, un monocromo rosso senza figurazione), Futurismo rivisitato a colori (1965), Paesaggio anemico I (1964), Grande oggetto paesaggio (1965), Compagni compagni (1968). La sua arte è in qualche modo contro la storia: esiste un’arte della Storia, ma Schifano non ne fa parte. Lui fa la sua storia. La grande arte è soprattutto un «non luogo», afferma Manganelli, «non possiamo essere “qui” solo accettando le regole linguistiche che lo inventano. L’azione del pittore non ha testimoni e non si può testimoniare. Si rivela, si presenta e si rappresenta con la sua sola esistenza». La lezione di Schifano è la prova più evidente che noi non siamo quel che appariamo, ma siamo fatti di ciò che non si vede. Siamo ciò che desideriamo. E i desideri di Mario Schifano sono stati infiniti.