San Rocco nel deserto

LA PANDEMIA NELL’ARTE

di Claudia Trafficante

Storia e raffigurazione della malattia attraverso i secoli

La malattia è parte integrante della storia dell’uomo. Dal momento in cui l’essere umano ha iniziato a organizzarsi in società più articolate, le malattie contagiose hanno iniziato il loro percorso epidemiologico. La diffusione di varie patologie è da ricercarsi proprio nel fatto che l’uomo avesse cambiato le proprie abitudini sociali: la condivisione degli spazi e la convivenza furono tra i motivi per cui iniziarono a circolare le prime patologie trasmissibili. Il dilagare di epidemie contagiose ha conferito un aspetto diverso alla società in cui sono comparse, cambiando e influenzando il corso degli eventi. La storia dell’uomo è quindi stata caratterizzata da decine di epidemie e pandemie causate da virus di diverso genere, alcuni noti, altri meno noti.

La ciclicità delle pandemie

Nell’ultimo secolo, per esempio, la tristemente famosa influenza spagnola del 1918 contagiò mezzo miliardo di persone, uccidendone almeno 50 milioni. Andando a ritroso nel tempo troviamo le tracce di altre malattie che sconvolsero gli assetti sociali e politici di molte società. Basta pensare che, prima del Covid-19, almeno altre 13 pandemie hanno infuriato negli ultimi 3000 anni. Siamo a conoscenza dei percorsi di contagio di queste malattie, grazie non solo ai documenti scritti in cui si raccontavano la morte e il terrore causati da questi flagelli che sterminavano intere popolazioni; ma una grossa fetta di “cronaca” è stata ceduta all’arte e alla rappresentazione, in diverse modalità, di quello che è stato più volte descritto come l’angelo della morte che si abbatteva su interi continenti con la furia cieca di chi non conosce il ceto sociale delle vittime.

 

Il concetto di malattia e di morte entra di prepotenza nella storia dell’arte dunque, sotto diverse sfaccettature. Da un lato troviamo l’artista che interpreta la società nelle opere d’arte, raffigurando la malattia e la morte dal suo punto di vista, dall’altro troviamo artisti che utilizzano il misticismo religioso per raccontare lo stesso evento con toni più cupi e apocalittici. In ogni caso è interessante vedere come l’arte sia da sempre contaminata dai cambiamenti storici e sociali nelle varie epoche.

 

Quello che colpisce, dopo gli eventi emergenziali del 2020, è la ciclicità con cui eventi pandemici hanno colpito l’uomo attraverso i secoli. Ancora più interessante è vedere come la reazione, spesso di grande resistenza, ha modellato il periodo storico a seconda della realtà vissuta. Il Covid-19 ha messo di fronte a una realtà durissima l’intera popolazione mondiale, ma se rapportata alle pandemie precedenti possiamo registrare con dati più confortanti e con una aspettativa di vita più a lungo termine. Quello che ha colpito di questa emergenza sanitaria è sicuramente la grande informazione e la condivisione di notizie che hanno contribuito a cambiare la quotidianità di tutti noi. In una immaginaria linea del tempo troveremo il 2020 come l’annus horribilis soprattutto per il nostro continente, ma ci mostrerà quello che da secoli sappiamo: la storia dell’uomo è ciclica, soprattutto quando è l'imponderabile a decidere.

 

Quello che emerge è che come in ogni epoca gli esseri umani hanno avuto la forza di rialzarsi, di reagire, di resistere ancora. Cambierà la nostra visione del mondo. C’è una vita pre-pandemia e una post-pandemia. Nel post, possiamo provare a creare, a costruire una società diversa. Il mondo dell’arte, come sempre, risentirà di questa situazione, ma ne uscirà rinnovato, rafforzato, con idee innovative e sicuramente legate a questa fase che ha sconvolto gli assetti mondiali. Solo un'attenta e incoraggiante analisi ci metterà di fronte alla realtà ciclica di questa pandemia, ma ci mostrerà anche come l’uomo è naturalmente resiliente rispetto a situazioni socialmente invalidanti come quella che abbiamo appena vissuto.

 

La rappresentazione della malattia

Nel XII secolo, alla vigilia delle Crociate, l’Occidente fu devastato da una epidemia che da molti venne considerata una punizione divina: la lebbra. Sembra che la malattia esistesse in Oriente dai tempi antichi, tanto è vero che già nel Levitico del Vecchio Testamento esiste una dettagliata descrizione di una sintomatologia comune alla patologia della lebbra. Le opere d’arte di questo periodo risentono della cupa rappresentazione del malato come emarginato dalla società civile. È il caso di alcune miniature presenti in manoscritti di medicina dell’epoca in cui venivano rappresentati i malati di lebbra con la famigerata campanella in mano o con la ciotola dei mendicanti. Una rappresentazione dunque devastante della malattia, a conferma che la medicina e la scienza fossero lontane dal trovare una soluzione. Non dimentichiamo che nel XIII secolo sembra vi fossero 19.000 luoghi di segregazione per lebbrosi in Europa, la maggior parte dei quali ubicati fuori dalle mura cittadine. Dunque l’approccio alla malattia prevedeva l’esclusione e l’isolamento degli ammalati. La lebbra, a fasi alterne della storia, fino ai nostri giorni continuò il suo cammino di contagio, soprattutto in zone del mondo con un alto tasso di povertà.

 

Un’altra malattia che non avrebbe lasciato scampo stava per abbattersi sull’Europa: la peste. Questa infezione batterica fece capolino periodicamente in Asia e in Europa tra il XIV ed il XVIII secolo. La prima pandemia di cui abbiamo testimonianze, però, risale al 541-542 d.C. ed è comunemente chiamata Peste di Giustiniano. Secondo alcune fonti storiche l’epidemia iniziò in Etiopia per poi raggiungere Costantinopoli attraverso navi commerciali. La conta dei morti fu devastante. Si pensa che l’epidemia abbia portato alla morte di oltre un quarto della popolazione del Mediterraneo orientale (stimata dagli storici tra i 50 e i 100 milioni di vittime). Nel 588 d.C. una seconda ondata: la peste si diffuse in Europa attraverso la Francia. Fu però l’epidemia del 1347, nota come Peste Nera, a sconvolgere l’assetto europeo, creando un vuoto demografico enorme: la popolazione si ridusse di un terzo, passando da 75 milioni a 50 milioni nel giro di quattro anni. Questa situazione contribuì alla distruzione del sistema feudale del Medioevo.

 

La figura dell'artista e la malattia

In questo periodo i cambiamenti della società vengono tradotti nell’azione empirica dell’artista, che trova spazio di espressione non solo sulla tela come mezzo di comunicazione, ma anche tramite la scultura. Più avanti, in alcuni casi diventa evidente il disagio dell’artista colpito egli stesso dall'epidemia.

 

È il caso di Egon Schiele, esponente di spicco dell’Espressionismo Viennese, che si ammalò e morì a causa della Spagnola nel 1918, non prima di aver rappresentato se stesso, la moglie e il figlio mai nato, nella sua ultima opera intitolata La famiglia. Prima di lui altri artisti avevano contratto malattie letali a cui non poterono sfuggire.

Immagine dell'opera di Egon Schiele, La Famiglia, 1918
Belvedere Museum, Vienna
Egon Schiele, La Famiglia, 1918

Tiziano Vecellio fu ucciso dalla peste nel 1576. L’artista veneto aveva dipinto "La pietà", un grande ex-voto, proprio per scongiurare la peste, la stessa malattia che lo colpì mentre ultimava l’opera. Come Tiziano, anche altri artisti dedicarono importanti opere alla pestilenza.

Immagine dell'opera di Tiziano Vecellio, La Pietà, 1575-76
Gallerie dell'Accademia, Venezia
Tiziano Vecellio, La Pietà, 1575-76

Jacopo Robusti detto il Tintoretto dipinse una tela ospitata nel presbiterio della Chiesa della Scuola Grande di San Rocco a Venezia, intitolata "San Rocco risana gli appestati". Si tratta di un dipinto ad olio di grandi dimensioni. La scena presenta un gruppo di malati colpiti dalla peste e sofferenti che volgono il loro sguardo e le loro preghiere verso il santo nella speranza di un miracolo. Tintoretto raffigura San Rocco colpito dalla peste in un’altra grande opera conservata nella stessa chiesa.

immagine dell'opera di Tintoretto, San Rocco colpito dalla peste, 1559
Scuola Grande di San Rocco, Venezia
Tintoretto, San Rocco colpito dalla peste, 1559
L’arte come mezzo di accettazione e cambiamento della società

Se l’arte assolve alla sua funzione di grande comunicatore dei bisogni e delle novità sociali, dall’altra parte si fa mezzo catartico per superare e condividere il disagio della patologia dell’artista. Siamo di fronte all’emblema di una società disfunzionale, in cui malattia e morte segnano il cambiamento socio-economico di intere popolazioni. Se è vero che l’arte imita la vita, allora la malattia deve essere rappresentata senza vergogna, senza pudori. La società fatica meno ad accettare la malattia del corpo, rispetto a quella dell’anima, con tutto il pietismo tipico delle confessioni religiose europee. Così anche le opere d’arte che rappresentavano la malattia, la morte, ma anche la rinascita, hanno trovato grandi spazi di manovra sulle tele, negli affreschi, nelle sculture, per non parlare di tutta l’iconografia e la cultura legata alle fotografie post mortem. Il concetto di malattia e di morte entra quindi di prepotenza nella storia dell’arte, sotto diverse sfaccettature.

La peste del 1347 raccontata nelle opere d’arte

Partita dall’Asia Centrale nella metà degli anni Trenta del XIV secolo, si diffonde in Italia e nel resto d’Europa a partire dal 1347, provocando la morte di un terzo della popolazione del Vecchio Continente. Le notizie sulla pandemia vengono raccontate, come è noto, nell’opera più importante del periodo, il Decamerone di Giovanni Boccaccio: “Già erano gli anni della fruttifera incarnazione del Figliuolo di Dio al numero pervenuti di milletrecentoquarantotto, quando nella egregia città di Fiorenza, oltre a ogn’altra italica bellissima, pervenne la mortifera pestilenza”. La furia con cui la malattia miete vittime viene raccontata dalle cronache artistiche del tempo. Significativo è l’affresco, oggi conservato a Palazzo Abattellis a Palermo, intitolato "Il trionfo della morte". L'anno di esecuzione è il 1446. L’opera ha paternità incerta. I nomi più probabili sono il Pisanello e Antonio Crescienzio. L’opera, intensa e struggente, fu di grande ispirazione per Pieter Bruegel il Vecchio, il quale nel 1562 dipinse il suo "Trionfo della Morte". Il periodo in cui Bruegel creò l’opera, oggi al Museo del Prado di Madrid, è costellato di guerre e pestilenze e rappresenta l’ineluttabilità della morte, narrata come un condottiero che non fa differenze di ceto: lo schiavo, il re, il predicatore, i giovani, gli anziani, tutti uguali davanti alla giustizia divina. Si possono intravedere nell’opera alcuni riferimenti anche ai lavori di Hieronymus Bosch (1453-1516), come "Giudizio Universale" del 1506.

 

La Peste Nera porta anche i pogrom antisemiti, i peggiori fino ai tempi della Shoa, con gli ebrei accusati di essere gli untori. Non a caso, nel 1348 una bolla di papa Clemente VII vieta di «ascrivere agli ebrei delitti immaginari». Ma la furia della peste colpisce inevitabilmente anche la reputazione della Chiesa: sarà proprio questo periodo tragico ad aprire la strada alla Riforma Luterana. Certo è che i resoconti dell’epoca rimasero impressi nelle generazioni future che ne diedero un’interpretazione a posteriori molto dura, ma anche estremamente efficace. Nel 1898 Arnold Böcklin dipinse la furia della morte nella sua opera intitolata appunto "La peste", attualmente al Museo d’Arte di Basilea. L’autore, ossessionato dalla morte e dalla malattia, dipinse questa cavalcata dell’angelo sterminatore intento a seminare morte e distruzione per le strade di una città medievale.

Immagine dell'opera di Arnold Böcklin, La Peste, 1898
Museo dell'Arte di Basilea
Arnold Böcklin, La Peste, 1898
La peste manzoniana, 1629-30

La durata dell’epidemia fu più breve rispetto alle precedenti, motivo per il quale non si può definire pandemia perché fu circoscritta soprattutto al Nord Italia. Questa pestilenza colpì il nostro Paese in due momenti diversi: nel 1630 portata con tutta probabilità dal passaggio degli eserciti lanzichenecchi in Italia Settentrionale; nel 1656 quando invece colpì il Regno di Napoli. In questo periodo nacquero molte opere, alcune delle quali come ex-voto dedicate alla Madonna e a San Rocco.

Immagine dell'opera di Bernardo Strozzi, San Rocco, 1640
Scuola Grande di San Rocco, Venezia
Bernardo Strozzi, San Rocco, 1640

Bernardo Strozzi, artista e prete genovese, dipinse il suo "San Rocco" per la Scuola Grande di San Rocco a Venezia, un’opera intrisa di misticismo e di speranza, datata 1640. Giovan Battista Crespi detto il Cerano dipinse per il Duomo di Milano l’opera intitolata "San Carlo visita gli appestati".

Immagine dell'opera di Giovan Battista Crespi detto il Cerano, San Carlo visita gli appestati, 1602
Fondazione Federico Zeri, Università di Bologna
Giovan Battista Crespi detto il Cerano, San Carlo visita gli appestati, 1602

"La Peste del 1630", nota anche con il titolo "La Vergine appare agli appestati", è invece un’opera pittorica di Antonio Zanchi che decora una delle pareti dello scalone della Scuola Grande di San Rocco a Venezia. L’opera si compone di due grandi tele, separate da una preesistente lesena architettonica all’interno della struttura. Anche in questo caso il lavoro dell’autore prende spunto da tele e affreschi già esistenti che avevano trattato l'argomento. Pensiamo al particolare de "L’inferno" contenuto nel "Trittico delle delizie" di Hieronymus Bosch, oggi al Museo del Prado a Madrid.

La peste del 1656

Portata a Napoli dai soldati spagnoli provenienti dalla Sardegna e che avevano trovato dimora nei Quartieri Spagnoli, assunse proporzioni tremende. Si registrarono circa 4000 vittime al giorno, decimando la popolazione dell’80%. Il pittore Domenico Gargiulo, detto Micco Spadaro, in quanto proveniente da una famiglia di fabbricanti di spade, riuscì a fuggire da Napoli durante la pestilenza e chiese ospitalità ai frati della Certosa di San Martino. Scampato, poi, al pericolo della peste, per ringraziare i certosini dell’ospitalità e come atto di devozione e di grazia verso Dio, raffigurato in un dipinto intitolato Rendimento di grazie dopo la peste, attualmente conservato al Museo di San Martino, i frati in preghiera, con il priore della Certosa di San Martino e con il cardinale Ascanio Filomarino, anch’esso rifugiatosi al sicuro dall’epidemia. Ma la sua opera più suggestiva resta Piazza Mercatello durante la peste del 1656, oggi custodita presso il Museo Nazionale di San Martino di Napoli. Scampato il pericolo dell'ultimo focolaio di peste, da quel momento l’Europa visse un periodo di calma. Il cambiamento vero riguardò la scienza medica.

La figura del medico e l’evoluzione scientifica raffigurata nei dipinti dell’epoca

Nel frattempo anche la visione della malattia e della medicina stavano cambiando, soprattutto nel resto d’Europa. Ne abbiamo traccia di nuovo nei dipinti del periodo. Rembrandt dipinse, proprio subito dopo la fine della pestilenza, il famoso Lezione di anatomia del dottor Tulp nel 1632. Per la prima volta la morte veniva rappresentata diversamente. La curiosità del mondo scientifico è racchiusa nell’opera stessa. Rembrandt fu scelto, appena ventiseienne, dalla corporazione dei medici di Amsterdam. Vi viene rappresentata una lezione del professor Nicolas Tulp, titolare della cattedra di anatomia. Era questo il periodo di una vera riforma culturale, sociale, ma soprattutto scientifica in particolare nei Paesi Bassi e in Nord Europa. Molto significativo in questo senso, e in piena contrapposizione con l’iconografia del secolo precedente, è l’opera dell’olandese Jan Steen intitolata The Lovesick Maiden. In questo dipinto, datato 1660, il malato è circondato dall’affetto della sua famiglia e dal medico che diventa la chiave di volta per comprendere e combattere la malattia. Saranno molti i dipinti in cui la figura dello scienziato è protagonista della tela. Si inaugura così una fase della storia dell’arte figurativa, in cui il medico è una figura centrale soprattutto nel rapporto con il paziente. L’espressione e la gestualità riprodotta nell’opera costituiscono un decisivo supporto all’analisi storico-scientifica.

 

Anche gli artisti del resto d’Europa offrirono la propria interpretazione del rapporto fra la malattia e la scienza, rappresentata sempre dalla figura del dottore. Una delle incisioni più significative è Doctor Schnabel von Rom, dell’artista tedesco Paul Fürst. Nell’opera, attualmente al British Museum di Londra, viene rappresentato, con dovizia di particolari, l’abbigliamento del temutissimo medico della peste utilizzato in Europa dal 1630 in avanti. Passata la paura per le epidemie che avevano flagellato l’Europa del Seicento, la medicina e l’evoluzione scientifica entrarono nella cultura e nelle opere d’arte di mezza Europa. Molto significativo è il dipinto di Pietro Longhi intitolato Il farmacista e datato 1752. È la conferma che dopo anni di morte e distruzione gli intellettuali europei guardavano alla scienza come unica fonte di speranza per trovare una soluzione alle epidemie. È l’evoluzione, la resilienza degli uomini e delle donne che ora si affidano alla scienza più che al misticismo religioso. Nel 1753 l’artista napoletano Gaspare Traversi realizza un’opera in chiave caravaggesca intitolata L’operazione. L’artista coglie il momento in cui il protagonista non è più il ferito ma il dottore che lo soccorre e lo aiuta con la fede nella scienza. L’espressione del medico è sicura e attenta. È il segnale di una rinnovata fiducia verso la medicina. Il trend continua per tutto l’Ottocento con la raffigurazione di scene di sofferenza ma anche di rinnovata speranza. Nel 1894 Demetrio Cosola raffigura l’arrivo del vaccino con l’opera intitolata La vaccinazione nelle campagne. Il medico è circondato da madri e da bambini di cui prontamente si prenderà cura. È un’immagine verista molto intensa che si rifà ad una vicenda reale, Chivasso, sua città natale, fu il primo comune a istituire in Piemonte la vaccinazione obbligatoria. Qualche anno dopo, un quindicenne di nome Pablo Picasso disegna Scienza e carità. L’opera, tipico esempio di realismo spagnolo, è attualmente conservata al Museo Picasso di Barcellona. I protagonisti raccontano una forte antitesi tra la scienza, rappresentata dal medico, e la religione cattolica, personificata dalla suora al capezzale della donna malata. Una contrapposizione forte, sentita soprattutto nei Paesi del Sud dell’Europa a maggioranza cattolica.

L'influenza spagnola

Iniziata tra il 1918 e il 1920, questa epidemia è considerata la prima delle pandemie del XX secolo che coinvolgono il virus dell’influenza. Arrivò a infettare circa 500 milioni di persone in tutto il mondo, riducendo drasticamente le aspettative di vita. Artisti del calibro di Munch, Mondrian, Schiele, Amadeo de Souza-Cardoso e Georgia O’Keeffe furono colpiti dall’epidemia. Mondrian, O’Keeffe e Edward Munch fortunatamente sopravvissero all’epidema. Munch, già provato a causa di una malattia mentale significativa, si dipinse in una famosa opera intitolata Autoritratto dopo la febbre spagnola, 1918-1920, mentre Schiele e de Souza-Cardoso morirono entrambi nel 1918, proprio a causa dell’epidemia. Sono molte le immagini fotografiche che invece riprendono le fasi della quotidianità durante l’epidemia. Mascherine e distanziamento sociale erano all'ordine del giorno. Furono numerosi i fotografi che immortalarono quella nuova normalità. Sono immagini che sembrano famigliari e che contengono quella giusta dose di realismo che ci aiuta a ritrovarsi in quelle immagini lontane.

L’Hiv, l’epidemia degli anni Ottanta

Una delle più pesanti e più recenti pandemie conosciute dalla società attuale è quella del virus dell’immunodeficienza acquisita, l’Hiv, meglio noto come Aids. I primi casi documentati sono apparsi nel 1981, anno in cui venne ufficialmente riconosciuta come epidemia. L’artista che per primo accostò l’arte a questa infezione fu il newyorkese Keith Haring. Street artist e rappresentante di spicco insieme a Basquiat del graffitismo, Haring contrasse l’Hiv nei primi anni Ottanta. Sensibilizzò il grande pubblico con le sue opere dedicate alla nuova epidemia e non solo. Con il suo stile Haring veicolò messaggi importanti, chiari e di immediata comprensione. Mise la sua arte al servizio della società per condividere e sensibilizzare l’opinione pubblica su importanti questioni sociali e politiche. Dopo la diagnosi il suo impegno in questo senso fu intensificato nonostante le sue precarie condizioni di salute. Nel 1989 gridò al mondo che bisognava conoscere la malattia per poterla combattere con l’opera intitolata Ignoranza=Paura. Nello stesso anno realizzò a Pisa Tuttomondo, un vero e proprio inno alla vita, sulla parete esterna della canonica della chiesa di Sant’Antonio Abate. La superficie della parete misura circa 180 metri quadrati e si tratta dell’ultima opera pubblica dell’artista statunitense prima della sua morte, nonché l’unica pensata per essere permanente. L’arte dimostra il suo potere di umanizzare anche la morte e la sofferenza. Il racconto preciso, dettagliato, delle epidemie nei secoli non solo ha funzionato come cronaca puntuale di eventi epocali, ma è servito a filtrare paure e desideri, rendendoli parte integrante della nostra cultura e riuscendo in qualche modo a raccontare un percorso umano, spirituale e scientifico di incredibile bellezza e umanità.