La visitazione, Bill Viola, Emiliano García Page Sánchez
Credits: Emiliano García Page Sánchez

Bill Viola a Palazzo Reale

di Cristiana Campanini

Una mostra ripercorre le sue videoinstallazioni

La profondità. La lentezza. La ritualità. L’empatia. La spiritualità. Il dialogo tra Oriente e Occidente. La natura, con la potenza dei suoi elementi a  irrompere nella cornice dell’opera, tra acqua e fuoco. E poi la composizione, scandita in note cromatiche così timbriche da dover essere lette in necessaria continuità con la storia dell’arte italiana, come fughe al cuore del Rinascimento. Sono queste alcune note emanate dalla videoarte di Bill Viola (New York, 1951). Investono il pubblico immergendolo da sempre in un tempo sospeso e dilatato. Ne catturano le emozioni fino a trattenere il respiro. Lo sorprendono fino a commuoverlo. L’opera di Viola sprofonda lo spettatore dentro l’immagine. Tocca corde sensoriali pre-razionali. Il suo lavoro è così emotivo e coinvolgente da essere stato definito perfino “tattile”, perché parla al corpo più che alla mente. Ed è questo viaggio di Viola attraverso la videoarte a essere sintetizzato a Palazzo Reale, che ospita la prima grande personale milanese dell’artista americano, curata dalla moglie Kira Perov. Si raccoglie il testimone di altre due personali italiane significative del passato recente, come quella a Palazzo delle Esposizioni a Roma nel 2008 e a Palazzo Strozzi a Firenze nel 2017. Per la prima volta, tra le 15 opere esposte, troviamo lavori visti di rado in Italia, come The Quintet of the silent (2000).

Emergence, 2002, video installazione di Bill Viola in mostra a Palazzo Reale, Milano
Kira Perov © Bill Viola Studio
Emergence, 2002
Il legame di Bill Viola con l'Italia

«Il fascino di Bill per il mondo dei video è iniziato da bambino», racconta Perov. «Aveva solo nove anni e quel bagliore blu del monitor lo catturò, quando nella scuola elementare nel Queens, a New York, era addetto a spostare il televisore su un carrello da un’aula all’altra, per le lezioni dei bambini». Nato a New York nel 1951, di origini italo-americane, Bill Viola ha un dialogo aperto con il nostro Paese, nell’arte e nella vita. Nel 1974 a Firenze imparò a conoscere la grande storia dell’arte italiana, con uno sguardo attento al Rinascimento e al primo Manierismo. Ma oltre a un ideale Grand Tour d’artista, a Firenze intrecciò anche profonde relazioni con il mondo più sperimentale della scena di quegli anni. Si fece notare come il “tecnico americano”, direttore di produzione dello studio di videoarte Art/Tapes/22. La posizione gli permise di entrare in contatto con una realtà di grande fermento e di collaborare con artisti europei e americani, da Giulio Paolini a Mario Merz, da Jannis Kounellis a Vito Acconci. Quei diciotto mesi intensi sono stati preceduti da una iniziale formazione accademica nel clima politico rovente e iperconcettuale dei primi anni ’70, nel dipartimento di studi sperimentali del College of visual and performing arts della Syracuse University a New York, dal 1969 al 1973.

The Quintet of the Silent, 2000, video installazione di Bill Viola in mostra a Palazzo Reale, Milano
Kira Perov © Bill Viola Studio
The Quintet of the Silent, 2000
Suono spazio tempo

Un aspetto mai eccessivamente raccontato di questi suoi anni di formazione è lo studio del suono. Prima dell’immagine, infatti, nell’opera di Viola, è venuta la conoscenza e la sperimentazione musicale, tra minimalismo ed elettronica. Oltre a essere già un musicista, in particolare un batterista, iniziava a trafficare con la cinepresa per passare in fretta dalla pellicola al video. Il suo professore d’arte allora era Jack Nelson, mentre al suono fu introdotto da Franklin E. Morris (1920-2018), per continuare con David Tudor (1926-1996), storico collaboratore di John Cage (1912- 1992). La sua sperimentazione nella videoarte è attenta al propagarsi del suono in uno spazio e in un tempo sospesi e amplificati. Viola “scolpisce” l’esperienza del visitatore nella sua spazialità, come una partitura da plasmare. Per lui il fenomeno del suono è stato centrale. Negli anni ’70 e ’80, è un protagonista della scena video più radicale, parte di quella generazione che ha raccolto il testimone da maestri come Nam June Paik (1932-2006), con la sua deriva tecnologica e astratta; oppure Bruce Nauman (1941), con la sua lente tutta psicologica sul corpo e sulle sue azioni. Presto Viola prende distanza da questi due pionieri, usando nuovi criteri e nuovi paradigmi.

The Veiling, 1995, video installazione di Bill Viola in mostra a Palazzo Reale, Milano
Kira Perov © Bill Viola Studio
The Veiling, 1995

La sua terza via, personalissima, che lo vede ancora protagonista di video monocanale, avrebbe conquistato in fretta musei come il Moma di New York. Meno vista e meno nota nelle grandi mostre recenti, è oggetto di un approfondimento nel catalogo dell’esposizione a Palazzo Reale, curato da Valentino Catricalà per Skira. Negli anni ’90 la sua arte improvvisamente cambia scala, aprendosi a nuovi mezzi e scenari. Il pubblico si amplia, diventa una platea più popolare. Viola punta a mezzi da grande cinema, realizza set, costumi e luci, con attori professionisti e installazioni multi-channel. Da qui in avanti la sua cura dell’immagine in movimento sarà estenuata in ogni dettaglio, poi declinata in complesse cornici installative, e l’esperienza dello spettatore concepita dentro una precisa architettura disegnata dall’autore, se pensiamo a opere dilatate nello spazio come The veiling (1995), che ci propone un incontro impossibile tra uomo e donna in una scomposizione progressiva dell’immagine. «Fondamentale per Viola è un’opera costruita in relazione profonda con l’architettura, in un rapporto site specific con il contesto», spiega Valentino Catricalà.

The Raft, May 2004, video installazione di Bill Viola in mostra a Palazzo Reale, Milano
Kira Perov © Bill Viola Studio
The Raft, May 2004
Oriente e occidente

È un’evoluzione che ha il suo apice nelle opere di quegli anni in stretta relazione alla storia dell’arte, come il video The greeting (1995) ispirato alla Visitazione di Pontormo; oppure Catherine’s room (2001), dedicato alla figura di Caterina da Siena, ma anche Passions (2000). Sono tutte opere di chiaro richiamo al Rinascimento italiano, ma dimostrano anche la sua inclinazione e la sua profonda conoscenza della cultura orientale, dal Sufismo al Buddhismo, dalla Persia al Giappone, dove si reca in uno dei molti viaggi a studiare la filosofia buddhista Zen. È proprio dall’incontro tra questi due mondi, tra Oriente e Occidente, a emergere una lettura possibile della sua opera. Costante è, ad esempio, il dialogo con le composizioni e le partiture di pale d’altare e polittici antichi. Lo schema da lui delineato fa confluire l’immagine, i valori e l’iconografia cristiana in una sospensione emotiva prossima alle filosofie orientali. Esemplare in questo è Emergence (2002), in cui i temi di fondo si estremizzano. Si amplifica la percezione degli stati emotivi interiori. Qui Viola mette in scena unasoglia metaforica e sospesa tra vita e morte. E poi The raft (2004), a travolgere i sensi con un diluvio improvviso. I temi restano e tornano, ma negli anni si radicalizzano. «Bill ha tenuto il passo di tutte le rivoluzioni tecnologiche di questi decenni, ma la sua immagine in movimento non ha voluto altro che catturare l’essenza della nostra esistenza», conclude Kira Perov. Vita, morte, viaggio, luce, movimento, colore, spiritualità sono solo alcune particelle dell’atmosfera composita creata dalla videoarte di Bill Viola, il più classico degli sperimentatori elettronici.

Questo approfondimento è tratto dal n. 595 di Arte. La rivista di arte, cultura e informazione è acquistabile in edicola o sul sito di Cairo Editore.

Arte Marzo 2023
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